Storie di Sicilia
GARIBALDI SI PENTI’ DI AVER CONSEGNATO IL REGNO DELLE DUE SICILIE AI SAVOIA
In questi giorni in cui ricorre il 150° anniversario dell’invasione garibaldina della Sicilia, ritengo interessante, quale elemento di comune riflessione, riproporre un aspetto politico e umano della vicenda unitaria, non molto evidenziato da buona parte della storiografia, ovvero il palese pentimento di Garibaldi per aver consegnato il Regno delle due Sicilie alla Dinastia dei Savoia.
Ritengo inoltre molto interessante ed opportuno, nonché equo, dare la parola al protagonista della vicenda ed ascoltare dalla sua voce, quale fu la sua opinione sull’opera che aveva portato a termine todo modo.
Non sappiamo quale sia l’indice di sincerità di Garibaldi quando scrive dei fatti militari, poiché gli scritti del Generale sono spesso romanzati e reticenti, specialmente sui punti relativi agli aiuti internazionali ed alle questioni attinenti al ruolo della massoneria, e non solo.
Ma nel caso in esame il pentimento di Garibaldi sembra sincero quanto inserito in un sistema strettamente logico, anche perché non ha nulla da guadagnare, al contrario assume con questi scritti una posizione invisa al Governo, al Parlamento ed alla Monarchia ed infine pericolosa.
Non va infatti dimenticato che il Governo sardo, e poi quello italiano di Vittorio Emanuele, non furono mai teneri col Generale ed in una lettera a Napoleone III, del 19 ottobre 1867 (Il guerrigliero di Nizza aveva appena servito il Re nella terza guerra di indipendenza) così si esprimeva: “Garibaldi è stato arrestato due volte contro le nostre leggi e lo sarebbe stato una terza, senza la crisi ministeriale”.
La critica alla Corona e l’autocritica che esamineremo sono esplicite ed a tratti ingenue, poiché risulta evidente che Garibaldi con queste dichiarazioni, si mette da solo sotto una pessima luce ed è cosciente di fare infine la figura dell’utile idiota, nelle mani di Cavour e Vittorio Emanuele, come da taluni venne indicato.
Il pentimento è un sentimento positivo, specie quando è esito di piena coscienza delle conseguenze delle nostre azioni, ma questo di per se non è sufficiente a riabilitare chi avrebbe dovuto, almeno fin dal 1848, conoscere le idee politiche e soprattutto gli uomini al servizio dei quali si poneva.
A chi conduce gli eserciti, a chi conquista i regni terreni concimandoli col sangue e poi li regala, non è perdonabile l’errore sul destinatario del dono.
Garibaldi sostanzialmente ripudia la sua stessa malfatta creatura ed il patrigno di questa, e paradossalmente diviene il principale critico degli effetti dell’unità italiana nel Mezzogiorno: comprende forse prima di ogni altro, che la questione meridionale è nata con la sua impresa realizzata in modo improvvido, intempestivo ed inadeguato.
Non sono stati sufficienti 150 anni per correggere i gravissimi errori politici di impostazione, dolosamente commessi nel 1860.
Monarchia, Fascismo e Repubblica non hanno riparato quei danni ed oggi la questione meridionale è più grave che allora.
Garibaldi ripudia i Savoia
Il 24 settembre 1874, Garibaldi inviò al notaio Gaetano Cattaneo un corposo manoscritto accompagnato dalla seguente dichiarazione: “Il D.re Riboli vi rimetterà il manoscritto autografo dei Mille, ch’io lego ai miei bambini Manlio e Clelia, e che vi prego di tener depositato presso di voi sinchè dagli stessi reclamato, o da chi legalmente per loro”.
Il manoscritto perviene nel 1933 all’archivio del Museo del Risorgimento per dono di Donna Clelia Garibaldi. La grafia è nitida e sicura, poche sono le correzioni e le note.
L’opera fu scritta dal Generale tra il 1870 ed il 1872, dopo la presa di Roma e dunque ad unificazione veramente compiuta, ed è da considerare la risposta politica di Garibaldi alle accese polemiche insorte attorno all’unità nazionale, a come essa venne conquistata ed al fallimento delle politiche sociali ed economiche dei Savoia, specialmente nel Mezzogiorno. La prima edizione del libro, finanziata con una sottoscrizione, vedrà la luce nel 1874.
Si consideri inoltre che nel decennio trascorso si erano registrate diffuse proteste contro lo Stato italiano e rivolte sociali e politiche, represse con efferata violenza dall’esercito e che il brigantaggio, alimentato dal malcontento, era un capitolo ancora aperto, una spina nel fianco del Governo che tentava con ogni mezzo di sminuire il fenomeno dal punto di vista politico, cercando di gabellarlo come fatto esclusivamente criminale.
Questo scritto di Garibaldi, segue le aspre polemiche collegate alle pubblicazioni del Diario militare dell’ammiraglio Persano e dell’Epistolario di Giuseppe La Farina che determinarono una violenta tempesta politica e sociale, nella quale i repubblicani e la stessa sinistra criticavano aspramente l’operato del Generale ed il modo in cui si ottenne l’unità. Ma il testo è certo anche l’esito della presa di coscienza del Generale della inadeguatezza della Dinastia, a fronte del fallimento, se non della omissione, di una adeguata politica socio economica.
Il Generale era furioso e scrisse senza veli il suo pensiero, anche se cautela e prudenza gli consigliarono, per bocca di tanti amici, di esprimersi sotto le mentite spoglie del “Romanzo storico”. Invero nell’introduzione postuma Garibaldi afferma: ”E qui io devo una confessione al lettore: io scrissi bene o male sotto forma romantica una campagna ch’io potevo esibire puramente storica, e che spero, narrata nelle mie memorie senza involto romantico, essa potrà bene, alla storia servir di materiale.”
Garibaldi con I Mille, volle chiarire la sua mutata posizione politica, determinata dal fatto che proprio nel momento in cui si era compiuta l’unità con la presa di Roma, la Dinastia si palesava impari al compito che la storia le aveva assegnato e forse neanche moralmente degna di questo.
Risultava conseguente un diffuso accanimento politico contro gli eventi che avevano portato alla creazione del Regno d’Italia e soprattutto contro l’impresa che ne era stata il cardine, ovvero l’invasione garibaldina e la conseguente caduta del Regno delle due Sicilie.
Queste sono parole del generale:
“I Governi sono generalmente cattivi, perchè d’origine pessima e per lo più ladra; essi, con poche eccezioni, hanno le radici del loro albero genealogico nel letamajo della violenza e del delitto.
Al loro sorgere – tempi feudali – essi dopo d’aver cacciato l’aquila dal suo nido l’occupavano e da li piombavano sulle inermi popolazioni, rubando quanto a loro conveniva: messe, frutta, donne e sostanze d’ogni specie, per provvederne i loro covili che chiamavan castelli.
A’ tempi nostri (1870) non meno feudali di quelli, più potenti i signori, più numerosi i birri e più servili e prostituiti i satelliti, benché i bravi si chiamino “Pubbliche sicurezze” e i Signori Re e Imperatori, credo si stia in peggiori condizioni, essendo gli ultimi più potenti dei primi e con una sequela di legali cortigiani, sempre pronti a sancire, colla maggioranza dei loro voti, ogni più turpe mercato delle genti o delle loro sostanze.
Al governo della cosa pubblica poi, giacchè i padroni regnano o imperano e non governano, vi si collocano sempre coloro che ne son meno degni, od i più atti a governare, non volendo i despoti gente onesta a tali uffici, ma disonesti come loro, striscianti e corruttori parassiti, coll’abilità della volpe o del coccodrillo.
Ciò non succede soltanto nelle monarchie dispotiche, più o meno mascherate da liberali, ma spesso anche nelle Repubbliche, ove gl’intriganti s’innalzano sovente ai primi posti dello Stato, ingannando tutto il mondo con ipocrisie e dissimulazioni, mentre gli uomini virtuosi e capaci, perché modesti, rimangono confusi nella folla, a detrimento del bene pubblico.”
La polemica coi repubblicani
Aperta e senza mezzi termini la polemica con i repubblicani, che mostra una certa confusione politica:
“Io ho sempre inteso per Repubblicani i propugnatori dei diritti dell’uomo contro la tirannide, e tali eran certamente i Mille ed i loro valorosi commilitoni del 60. Ciò sia detto spero per l’ultima volta, a confutazione di quei dottrinari (massime mazziniani) che voglion oggi far monopolio dell’idea Repubblicana come se ne fossero essi gl’inventori, come se non fossero mai esistite Repubbliche, e che hanno sempre l’aria di non volermi perdonare la spedizione di Marsala, di non avervi proclamato la Repubblica e di non averla proclamata in altre occasioni in cui mi sono trovato in comando”.
Si noti l’ossimoro politico dei “garibaldini repubblicani” come il loro capo, che consegnano il Regno da una monarchia all’altra. Un’ingenuità politica che ben rappresenta una certa “confusione”, che spesso ha connotato le scoordinate azioni del Generale.
Non meno violento è l’attacco al Governo ed al Parlamento italiano e solo la fama d’eroe internazionale ed i meriti acquisiti con l’unità, e forse la paura di una rivolta, possono aver salvato, ancora una volta, Garibaldi dal carcere se non dal patibolo:
“Vi sono molti birbanti nel mondo, massime tra i popoli ove domina la corruzione del prete e della tirannide. Ivi si perviene ai gradi, agli onori, all’agiato vivere a forza di bassezze, di umiliazioni e di servilismo; quindi l’onestà non è merito, ma lo è l’adulazione e la flessibilità della schiena e della coscienza.
Fra cotesti birbanti, alcuni onesti o sono impercettibili nella folla o sono tenuti in diffidenza, per il scetticismo che invade le moltitudini sì sovente ingannate. Eppure io conosco degli onesti che potrebbero migliorare la condizione umana, se non vi fossero tanti pregiudizi e tante dottrine.
Ma come si deve aver fede in cinquecento individui, la maggior parte dottori (… han fatto prova così cattiva fin’ora nei Governi e nei parlamenti da far disperare di loro) e la maggior parte venali, uomini che vengono su dalla melma ove li condannarono la dappocaggine e sovente il vizio; vengono su, dico, a forza di cabale e di favoritismo e si siedono sfacciatamente tra i legislatori d’una nazione coll’unico interesse individuale e disposti sempre a sancire ogni ingiustizia monarchica, coonestando così gli atti infami di governi perversi, che senza quella ciurma di parassiti, avrebbero responsabilità dei loro atti, mentre con parlamenti servili, essi sono despotici e compariscono o si millantano onesti.
Questi cinquecento fra cui v’è sempre qualche buono, disgraziatamente, si usano come governanti nelle monarchie non solo nei governi imposti, ma pure nei paesi, ove la caduta delle monarchie, come in Ispagna e in Francia, ha lasciato le nazioni padrone di loro stesse … E perchè non scegliere un onesto solo per capitanare la nazione e con voto diretto ? Non è più facile trovarne uno che cinquecento?”
Queste affermazioni sulla utilità della Dittatura, nel senso del diritto romano, ovvero scelta dal popolo, è ridondante in tutto il testo: non è inverosimile scorgervi il dubbio postumo di Garibaldi, che sarebbe stato meglio tentare la via di una Dittatura elettiva delle Sicilie.
Il coltello nella schiena: i pupari all’opera
Poi Garibaldi si toglie il macigno che gli sta sul cuore da dieci anni e attacca direttamente Vittorio Emanuele e la sua incapacità di realizzare quell’idea di un’Italia Patria vera degli italiani, alla quale il Generale aveva sacrificato perfino la coscienza e infine l’anima, vendendola al diavolo.
“Il nido monarchico (Napoli) venne occupato dagli emancipatori popolani ed i ricchi tappeti delle reggie furon calpestati dai rozzo calzare del proletario.
Esempi questi che dovrebbero servire a qualche cosa, almeno al miglioramento della condizione umana, che non servono, per l’albagia e la cocciutaggine degli uomini del privilegio, che non si correggono nemmeno quando il leone popolare, spinto alla disperazione, li sbrana con ira selvaggia. ma giusta e sterminatrice!
I Napoletani, come i Siciliani, non secondi a nessun popolo per intelligenza e coraggio individuale, furon quasi sempre mal governati e sventuratamente molte volte con sul collo dei governi stranieri che solo cercavano di scorticarli e tenerli nell’ignoranza. Ai pessimi governi devesi quindi attribuire il poco progresso in ogni ramo di civilizzazione e prosperità nazionale.
E questo governo sedicente riparatore, fa egli meglio degli altri? Egli poteva farlo! Doveva farlo! Nemmen per sogno: coteste ardenti e buone popolazioni che con tanto entusiasmo avean salutato il giorno del risorgimento e dell’aggregazione alle sorelle italiane, sono oggi ….si! oggi ridotte a maledire coloro che con tanta gioja, un giorno, chiamaron liberatori!”
“… il felice regno (delle due Sicilie). Felice! poteva chiamarsi, giacché con tutti i vizi, di cui era incancrenito, il suo governo occupavasi almeno che non morissero di fame i sudditi … Si sa quanto solerte era il governo borbonico per far mangiar a buon mercato il pane ed i maccheroni … occupazione che disturba poco la digestione di coteste cime che governano l’Italia. Giù il cappello però, esse le cime hanno fatto l’Italia ed avranno fra giorni una statua in Campidoglio, non so di che roba”.
Dichiarati persino affamatori del popolo i Regnanti, Garibaldi si sofferma sulla vicenda napoletana, sulle mene di Cavour e Vittorio Emanuele per appropriarsi della vittoria e piegarla al giogo sabaudo, nei modi e nei tempi da essi voluti.
Traditori di uomini e traditori di idee
E’ il caso di annotare che nel periodo napoletano Garibaldi prese il titolo di “Dittatore delle due Sicilie”. Questa circostanza destò enormi preoccupazioni a Torino, dove tutto si misurava col metro dell’inganno, sulle vere intenzioni del Generale, temendosi la proclamazione della Repubblica e un colpo di testa del Dittatore subornato dagli accorsi Mazzini e Dumas.
In realtà Garibaldi avrebbe voluto detenere, ben oltre la data dei Plebisciti, un’ampia ed autonoma Dittatura delle Sicilie per sondare la possibilità di una azione su Roma o infiltrarsi e provocarvi moti annessionisti. Non era certo intenzionato a rimanere Dittatore delle Sicilie. Ne è prova incontestabile il secondo Decreto dato a Napoli nelle stesso giorno della presa del potere, Decreto con il quale Garibaldi dispone l’aggregazione immediata alla squadra navale di VITTORIO EMANUELE di tutta la marineria, sia da guerra che mercantile, delle Due Sicilie.
Napoli, 7 Settembre 1860 ITALIA E VITTORIO EMANUELE IL DITTATORE DELLE DUE SICILIE Decreta
Tutti i bastimenti da guerra e mercantili appartenenti allo Stato delle Due Sicilie, arsenali, materiali di marina, sono aggregati alla squadra del Re d’Italia VITTORIO EMANUELE, comandata dall’Ammiraglio Persano.
Il Dittatore G. GARIBALDI.
Questo titolo Egli utilizzò da subito nel primo Decreto del 7 settembre, dato in merito alla nomina di Ministri e Direttori dei Dipartimenti, con il quale confermava il famigerato Don Liborio Romano, in stretti rapporti con la camorra, “Al suo posto del Ministero dell’interno”.
Procede e non fa sconti il Generale e diventa il primo dei pentiti dell’unità fatta male, ma soprattutto pentito di aver regalato l’Italia ai Savoia.
“Frattanto (8 settembre) ogni sollecitudine era spinta sino al ridicolo dagli aspiranti al merito di propaganda e d’intrighi per la Monarchia – messia, cioè Sabauda, che avean usato i più ignobili e gesuitici espedienti per rovesciare Francesco II e sostituirlo.
Tutti sanno le mene d’una tentata insurrezione, che dovea aver luogo prima dell’arrivo dei Mille e per toglier loro il merito di cacciar i Borboni; ciocchè poteva benissimo eseguirsi, se la codardia non fosse l’apannagio dei servi.
Non ebbero il coraggio d’una rivoluzione i Sabaudi fautori, ma ne avevan molto per intrigare, tramare, sovvertire l’ordine pubblico, con delle miserabili congiure e delle corruzioni fra i mal fermi servi della dinastia tramontante. E quando nulla avean contribuito negli ardui tempi della gloriosa spedizione, oggi che si avvicinava il compimento dell’impresa la smargiassavano da protettori nostri, sbarcando truppe dell’Esercito Sardo in Napoli (per assicurare la gran preda s’intende) e giunsero a tal grado di protezionismo da inviarci due compagnie dello stesso esercito, il giorno dopo la battaglia del Volturno, cioè il 2 Ottobre.
Era bello veder i Regi settentrionali usar ogni specie di fallace ingerenza, corrompendo l’esercito borbonico, la marina, la corte, servendosi di tutti i mezzi più subduli, più schifosi, per rovesciare o meglio, dare il calcio dell’asino a quel povero diavolo di Francesco, che finalmente era un re come gli altri, con meno delitti, senza dubbio, per non aver avuto il tempo di commetterne, essendo giovane ancora. E rovesciarlo per sostituirvisi e far peggio!”
Garibaldi poi getta luce sul suo frettoloso ritorno a Palermo e sulla sua contrarietà al Plebiscito, o almeno sui tempi di esso, che interferivano col suo progetto di conquistare Roma.
“Anche a Palermo, com’era naturale, tramavano i fautori della monarchia sabauda e gettavano contro i Mille la diffidenza delle popolazioni, spingendola ad una annessione intempestiva. Essi mi obbligarono di lasciar l’esercito sul Volturno, alla vigilia di una battaglia, per recarmi nella capitale della Sicilia a placare quel bravo popolo suscitato dai Cavoriani agenti”.
Il pentimento di Garibaldi su come venne fatta l’unità, lo si percepisce a pieno quando commenta la vicenda dei Plebisciti (citandola direttamente o indirettamente), è furente: le parole che utilizza nel 1870, lo mettono a rischio della vita:
“La libertà poi, è un ferro a due fendenti. L’autocrate è il più libero degli uomini e della libertà si serve generalmente per nuocere. Il proletario, che più d’ogni altro abbisogna di libertà, quando giunge a possederla, la prostituisce o la trasforma in licenza.
Voi mi direte che foste ingannati, uomini del popolo, quando vi corruppero; quando vi fecero gridar Viva la morte! E quando vi condussero a gettar nell’urna il vostro voto per un ladro, un servile od un tiranno! Ma voi vi lasciaste condurre, perversi!”
Ma ancor più palese è l’accusa di inettitudine, chiaramente manifestata, che rivolge ai Savoia. Garibaldi dunque si accorse subito dopo l’unità di aver a che fare con personaggi altamente inaffidabili e con un Re che solamente fingeva di liberaleggiare ed al quale delle popolazioni meridionali poco importava, se non lo sfruttamento.
La rivoluzione siciliana quindi è alimentata e guidata da Garibaldi, un uomo che ancor prima di partire da Quarto, era già sceso a compromessi con le sue idee repubblicane ed anticlericali in nome dell’Italia unita. E dopo averle tradite, si accorge che è stata tradita quell’idea dell’Italia che lo aveva ispirato e costretto a compromettersi con tali personaggi da operetta: il fallimento politico e umano è totale e l’amarezza traspare ad ogni parola insieme alla delusione.
L’impresa garibaldina è connotata dal tradimento: tradito Francesco dai suoi generali e dall’affettuoso cugino che nega di aiutare Garibaldi, ingannato il popolo dai proclami del Dittatore e infine, ironia del destino, tradito dai suoi registi perfino il Condottiero.
L’epilogo dello scritto è eloquente quanto disperato: “Tutte le cariatidi della Monarchia, come i primi, consueti al dolce far niente ed a nuotare nell’abbondanza, oggi piegando la schiena al lavoro.
Non più leggi scritte. Misericordia! Grideranno tutti i dottori dell’Universo, oggi obligati anche loro a menar il gomito per vivere. Finalmente una trasformazione radicale in tutto ciò che abusivamente chiamavasi civilizzazione e le cose non andavano peggio! Anzi scorgevasi tale contentezza sul volto di tutti e tale soddisfazione, per il nuovo stato sociale, ch’era un vero miracolo!
Era però un sogno! Io mi svegliai beneficato certamente dalla visione; amareggiato però, subito dopo, dalla nauseante realtà della Società odierna.
E cercai quindi, addolorato, di ripigliare la strada dell’isolata e deserta mia dimora.”
Garibaldi che venne in Sicilia al grido di “Italia e Vittorio Emanuele”, primo fautore dell’unità nazionale savoiarda, è il primo ad ammettere il fallimento del processo unitario e l’incapacità dei Savoia di realizzare la Nazione degli italiani, la loro Patria futura. Ma ormai è tardi, il giorno del Generale è finito ed il sole dell’ideale non illumina più il suo Astro.
L’anima della Sicilia attende da secoli, arsa come la zolla solcata dal caldo d’agosto, una goccia di giustizia. Attende il fremito d’ali di una farfalla, un battito unisono dei cuori dei suoi figli che spezzi le catene della sua storia … prima che il giorno finisca.
fonte: www.siciliainformazioni.com
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