In Evidenza, Storie di Sicilia
IL SISTEMA FISCALE DEI SAVOIA FU VESSATORIO E PREDATORIO
Ecco come il sistema amministrativo borbonico, definito semplice e sicuro, fu soppiantato a forza da quello Sabaudo.
Negli ultimi diciotto anni, con l’affermazione sempre più massiccia della Lega Nord nella politica italiana, ha preso piede con più vigore, lo stereotipo del Sud parassita e del Nord assistenzialista, che accomuna generazioni di “padani” che, oggi, invocano il federalismo fiscale per poter godere della ricchezza prodotta, senza elargire alle regioni meno sviluppate.
Evidentemente, sono a conoscenza che i fattori un tempo erano invertiti e che è stato con la conquista piemontese e l’Unità d’Italia, che il primato borbonico in materia fiscale, a detta di molti economisti, indiscutibilmente il più spedito, semplice e sicuro d’Italia, si è perso definitivamente. In questo, storiografi e scrittori, sembrano essere oggi abbastanza concordi, ammettendo che la cattiva gestione sabauda causò l’impoverimento del Sud Italia, impoverimento sia economico che culturale, intendendo per cultura quella civica e amministrativa che faceva di quello borbonico un sistema esemplare. La definizione dell’aggettivo “borbonico” nel dizionario Garzanti riporta che in senso figurativo il termine vuol dire “retrogrado, reazionario (per la politica di chiusura e repressione attribuita ai re borbonici di Napoli)”. Si tratta della ricaduta linguistica di un processo culturale avviato qualche tempo prima dell’unificazione d’Italia, quando la “leggenda nera” sul Regno delle Due Sicilie e sulla dinastia borbonica fu creata ad arte, per aprire la strada agli eventi militari e politici che avrebbero cambiato la faccia della Penisola.
Una rapina, la definiscono in molti, ed anche a mano armata, potremmo aggiungere, dal momento che la nuova amministrazione fu imposta con la forza.
Rispetto all’esiguo numero di imposte borboniche, quelle numerosissime introdotte dai Savoia furono davvero insostenibili: la tassa comunale, provinciale, addizionale, quella sulla famiglia, sul macinato, la tassa di successione, l’imposta immobiliare, sono solo alcune.
“I siciliani dunque – scrive Coppola in “Sicilia tradita” – si trovano all’improvviso seppelliti da questo nugolo di tasse e balzelli e depredati dalle loro prime necessità di vita e di sussistenza, si trovano più poveri di prima”. Un sistema per allora perfetto contro un sistema arcaico e vessatorio, di un regno piccolo, povero e poco industrializzato (come riferisce Lorenzo Del Boca, “al momento dell’Unità d’Italia, il Regno delle Due Sicilie rappresentava un gettito economico di 443,2 milioni, mentre il Regno di Sardegna ne poteva contare solo 27 milioni), la cui volontà non può non essere definita predatoria.
Un’ottima descrizione di come andarono le cose, è quella di Francesco Saverio Nitti che, nei suoi “Scritti sulla Questione Meridionale, Il bilancio dello Stato dal 1862 al 1896-97”, scrive: il Regno di Napoli era, nel 1859, il più reputato in Italia per la sua solidità finanziaria […] Scarsi il debito, le imposte non gravose e bene armonizzate, semplicità grande in tutti i servizi fiscali e nella tesoreria dello Stato. Era proprio il contrario del Regno di Sardegna […] dove il regime fiscale rappresentava una serie di sovrapposizioni continue fatte in gran parte senza criterio, con un debito pubblico enorme e a cui pendeva sul capo lo spettro del fallimento”. L’avvenuta unificazione fiscale fu pagata dal Sud e dal Sud fu sanato il debito pubblico: “unificando il debito – scriva ancora Coppola – lo Stato italiano faceva pagare al Sud investimenti che crearono la proprietà e la ricchezza delle regioni settentrionali. La cresciuta fiscalità convogliò verso il Nord una considerevole parte delle riserve d’oro delle province meridionali”. E Nitti, nella sua opera conferma queste parole: “la verità – scrisse – è che l’Italia meridionale ha dato, dal 1860, assai più di ogni altra parte d’Italia in rapporto alla propria ricchezza”, e in progressione.
Stando ai dati riferito da Del Boca nel volume “Maledetti Savoia”, le tasse pagate dai siciliani allo stato italiano raggiunsero 50 milioni nel 1861, ma erano già 70 i milioni nel 1866 e addirittura 200 nel 1890. Forse anche per questo Napoleone Colajanni, illustre deputato siciliano del periodo ex garibaldino descrisse, in uno dei suoi saggi, l’Unità d’Italia come una “jattura” . Stando a queste parole e alla ricostruzione dei fatti per come avvennero, non si può più sorvolare sul fatto che i siciliani, i meridionali in genere, diedero un contributo unico e indiscutibile alla causa italiana.
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