Storie di Sicilia
Le miniere di Fiumedinisi E Alì a partire dal XV Secolo, e la Ferriera
I Greci chiamarono il fiume della valle Chrisorhoas perchè tra le rive dello stesso trovarono rasure di oro. Il prezioso minerale veniva ricavato dalla sabbia del torrente che attraversava la zona mineraria montana. L’oro estratto serviva alla fabbricazione di monete e, più spesso, di utensili domestici e gioielli di gran pregio, destinati alle famiglie patrizie della Sicilia.
Durante il periodo arabo nella zona viene riposto un certo interesse per le miniere di ferro, mentre Ruggero II concentrò il suo interesse per il vetriolo e l’allume, non tralasciando l’oro, con il quale fece rivestire i capitelli del duomo di Messina.
Nel XV secolo, dopo il sedarsi delle lotte intestine interne, re Martino mostrò un certo interesse per lo sfruttamento del bacino metallurgico di Fiumedinisi e di Alì. Infatti il 18 aprile 1402 concesse l’autorizzazione a Berto Billone, Filippo di Orzano e Andrea Carlino di poter ricercare e sfruttare, nei terrirori di Alì, Fiumedinisi e altre località vicine, minerali di argento, rame, ferro, zolfo, allume e polvere di gamillu (salnitro). L’anno successivo la licenza venne concessa al mercante veneziano Disiato di Brolo.
L’antica ferriera, costruita nella zona alta del territorio, subì gravi danni in occasione dei movimenti tellurici che interessarono il distretto messinese, alla fine del XV secolo. Riparati i dani, nel 1507 la ferriera fornisce un’intensa produzione di chiodi speciali per le costruzioni navali (i cosiddetti chiodi ruvidi). Il terremoto del 1509 però causò altri danneggiamenti, che ne sconsigliarono la ristrutturazione. La lontananza dal centro abitato e quindi dalle vie di comunicazione, oltre alla scoperta di filoni nelle vicinanze, consigliò il definitivo abbandono della vetusta ferriera e la costruzione di una nuova contrada Giallinello.
Il nuovo impianto sorse nel giardino di cola di Grigoli, acquistato dal governo al prezzo di 15 onze; dal 1562 al 1569 ebbe una produzione esclusiva di armi di ferro e palle d’artiglieria e si avvalse di un acquedotto, che prendeva le acque dal vicino mulino dei d’Alcontres e che per mezzo di una ruota idrica, situata in mezzo alla ferriera, permetteva il funzionamento della stessa. Per la costruzione della ferriera il Sanmassimino, incaricato dalla corte insieme ad Antonio Sansaro, si avvalse della direzione tecnica di maestranze bergamasche, di falegnami calabresi e di armieri milanesi giudati da Pietro Paolo Malfitano (1).
Nel 1575 il Cardinale Granvelle inviò quì il napoletano Decio Coppola e l’alchimista Giovanni di Raut, per studiare i giacimenti auriferi di Fiumedinisi, su indicazione del funzionario governativo Alfonso Crivella. Sei anni dopo risulta un’altra richiesta per l’attivazione di miniere d’oro e d’argento, fatta da Andrea La Limena o Calimena, in vari luoghi tra cui Fiumedinisi, ma le ricerche vennero sospese per favorire le spese militari. La tradizione vuole, confortata da esplorazioni successive, un’antica miniera aurifera in contrada Caloro (lo stesso toponimo sembra ricordarlo), nella quale perirono circa trenta soldati-minatori e il direttore dei lavori, lo spagnolo Moncada, travolti da una frana che seppellì definitivamente la cava.
Nel 1669, l’intensificarsi delle tecniche ed estrazioni di minerale nel territorio di Fiumedinisi e la costante presenza in loco di tecnici stranieri, consigliò la costruzione di un grande palazzo governativo, situato nel cuore del centro abitato ed al quale fu assegnato il nome di “Palazzo della Zecca”, perchè presumibilmente sostituì la reale zecca di Messina dopo la famosa rivoluzione del 1674-78. Probabilmente, dopo l’abolizione del privilegio di zecca reale a Messina, si utilizzarono i grandi e vicini locali del Palazzo della Zecca di Fiumedinisi, nei quali provvisoriamente furono portati i macchinari della zecca messinese prima che si impiantasse quella nuova nella città di Palermo.
Nel 1726 il nuovo imperatore Carlo VI d’Austria decide di riprendere lo sfruttamento minerario, soprattutto nei territori di Alì e Fiumedinisi, e in contrada Ruppone fa costruire una nuova grande fonderia, composta da tre edifici, la quale viene ideata, costrita e diretta dagli ingegneri tedeschi Giovanni Langher e Giovanni Trischer.
Lo sfruttamento avviene soprattutto nelle vicine e ricche miniere S. Carlo, così denominate in onore dell’imperatore, nelle quali sono destinati operai e maestranze sassoni e ungheresi.
Si estrae una discreta quantità di argento e nel 1734, con quel minerale, si procede alla coniazione di monete con l’immagine dell’imperatore Carlo VI d’Austria e sul rovescio appare la forma geografica della Sicilia con lepigrafe Haec funditur ex visceribus meis (questa moneta è fusa con il metallo delle mie viscere). La moneta è coniata nella zecca di Messina, nonostante il diritto e gli stessi impianti fossero passati alla città di Palermo, dopo la rivoluzione anti spagnola. Quest’unica coniazione a Messina, dopo l’abolizione del privilegio da parte delle autorità spagnole, fa pensare che siano stati utilizzati gli impianti provvisoriamente trasferiti a Fiumedinisi, durante gli anni della stessa rivolta. (2).
I lavori nelle miniere di Fiumedinisi seguirono anche sotto Carlo III di Borbone, sotto la guida del barone Ludwig VonBurgdorff, ma la monetazione del 1754 avvenne nella zecca di Palermo. Le autorità regie però si resero conto delle notevoli spese sostenute e degli irrisori utili avuti. Pensarono allora di affidarne l’impresa a privati, i quali avrebbero dovuto riconoscere una percentuale rilevante del ricavato allo Stato.
Il primo che si lanciò nell’impresa fu un facoltoso possidente di Fiumedinisi, di nome Olivo, che però per inesperienza fu costretto ad abbandonare i lavori, dopo aver subìto gravi perdite che lo costrinsero al fallimento e alla confisca dei beni da parte dell’erario. Nel 1774 risulta affittuario, per la somma di 1050 ducati, un certo Marucci e nel 1778 gli succede Giuseppe della Marra, mentre alcune cave vengono concesse al Cav. Minutolo. Nel 1838 sono assegnate ad una società inglese, rappresentata da Mr. Donald Maclean e nel 1867 vengono cedute a Mr. William Beck, il quale importando il minerale in Inghilterra, nascosto in botti e caricato su piccoli natanti, nonostante fosse proibito dalla legge mineraria del 1826, riuscì a ricavare buoni profitti.
Nel 1895 la società “Officine di S. Giovanni a Teduccio” esplora una galleria nella contrada “Due Fiumare”, ma concentra le ricerche particolarmente a Tripi nel territorio di Alì. Un anno dopo, lo sfruttamento delle miniere viene affidato alla società “Salvatore Fiuorentino e C.” di Napoli e nel 1907 all’equipe del messinese Ing. Ubaldo Ziino. Il terriemoto del 1908 fece abbandonare tutto e i successivi avvenimenti bellici fecero dimenticare le ricche miniere di Fiumedinisi, con l’eccezione degli scavi a vacco della ditta “G. Agnello” avvenuti nel 1934. Le ultime ricerche sono state eseguite dall’Azienda Mineraria Siciliana dal 1951 al 1967 nelle miniere di Vacco e Migliuso a Fiumedinisi e di Tripi ad Al’. Purtroppo l’esito dello sfruttamento fu negativo, soprattutto per l’aumento del costo della manodopera e delle notevoli spese sostenute per i trasporti.
1) Come abbiamo avuto modo di di notare, l’emigrazione di manodopera avveniva dal Nord verso il Sud, mentre dopo l’Unità diItalia il processo andò via via sempre a capovolgersi, creando gravi conseguenze sociali ed economiche al territorio della valle e ai suoi abitanti.
2) Il numismaticoIgnazio Belletti mette in discussione l’origine della coniazione, in quanto le sigle F:B: fanno pensare ad un’opera non di un disegnatore siciliano, tuttavia la certezza della provenienza dell’argento dalle miniere di Fiumedinisi e Alì autorizza l’attribuzione della moneta o medaglia ad un’officina messinese (da PISPISA E. – TRASSELLI C., Messinanei secoli d’oro Storia di una città dal Trecento al Seicento, Messina 1988).
N.B. I testi sono tratti dal libro “ANTICHI MESTIERE E TRADIZIONI POPOLARI DELLA VALLE DEL NISI” di Carlo Gregorio, pubblicato nell’Agosto 2005.
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