Storie di Sicilia
MITICI PERSONAGGI FURCESI DI UNA VOLTA: Ninài, Cicaleddha e ‘u Campiuni
Ninài (di Maria).
Il “professore” Ninai, figlio di Maria ‘a Sciaveria è stato un personaggio di Furci: un bel personaggio. Arguto, faceto, pronto di parola e di pensiero, con la “fissa” di dover sempre primeggiare.
Marinaio per diletto, giocatore esperto di carte, ma ombroso e superstizioso. Famosi il sussieguo con cui si compiaceva di mostrare il frutto delle sue ricche pescate e i suoi diverbi con i compagni di gioco quando questi erano poco attenti.
Su una cosa eccelleva: nell’intuire nelle persone il dato più caratteristico e nell’affibbiare loro dei soprannomi. L’autore del libro dal quale traggo queste righe dice: Per li io ero ‘u figghiu du’ collega e per anni mi era rimasta ignota la motivazione dell’epiteto. Seppi poi che in un caldo giorno d”estate, aveva sentito mio padre che nel suo riro di lavoro – consegna di pane a domicilia usando un carrozzone tirato da un cavallo – incoraggiava la bestia tutta seduta e stanca, accarezzandola sul groppone e chiamandola “collega” (sottintendendo il lavoro di fatica).
Ecco! Aveva percepito l’umanità di mio padre che, pur stanco e affaticato, non si lagnava, non cercava di inveire, ma accomunava affettuosamente alla sua condizione il suo compagno di fatica, da persona buona, sensibile e affezionata alle sue cose e al suo mondo interno.
Concludendo il breve racconto su Ninài, l’autore afferma: “Quando ancora mi rivolgo col pensiero a mio padre lo chiamo anch’io “collega”.
Cicaleddha
Ogni posto ha bisogno dei suoi eroi e non necessariamente gli osannati eroi debbono essere grandissimi come nell’accezione comune. Il Signor Cicala fu per i suoi tempi un buon ciclista, vincitore di corse da strapaese e in campo provinciale, regionale e forse anche al di fuori dela nostra isola.
Per noi, Cicaleddha era grande quasi come Bartali e Coppi e, se non aveva vinto come loro, era perchè durante le corse si fermava spessoi a mangiare, bere o solamente a raccogliere gustosissimi fichi. E dopo si rilanciava all’inseguimento, rinvigorito come Braccio di Ferro dagli spinaci, e volava sulle cime delle montagne, sfrecciava come un treno in pianura e in discesa, riprendeva e superava i suoi avversari!!! Il mito lo aveva consegnato grande fino ai nostri tempi. Non correva più, era un signore di buon portamento, azzimato e gentile, a cui si poteva chiedere pareri sui grandi corridori del dopoguerra. Manifestava allora un cruccio. Di non aver goduto di biciclette leggere come quelle di oggi (ieri). Queste biciclette erano così piumose che lui le avrebbe alzate usando un dito solo.
‘U Campiuni (‘U Carritteri)
Duro, estenuante, faticoso il lavoro del carrettiere. Svegli antelucana, talvolta non appena calata l’ombra della notte, per iniziare una cerimonia lunga; preparazione del cavallo con crusca e striglia, suo rifocillamento con la razione (‘a ragiuni) di foraggio per affrontare la fatica del pesante lavoro, allestimento del carico del carretto e via, partenza nel cuore della notte, per essere prima dell’alba pronto a scaricare la merce nel posto dovuto, che poteva essere anche lontano.
E una volta anche mestiere pericoloso. Vero è che i carrettieri erano di solito persone (proverbiale la forza di Giannettu ‘u Trai detto così perchè aveva trasportato a spalla una grossa trave, ‘u bastasi, (che era servita alla costruzione della sua casa) e temute perchè armati di zzòtta, la frusta che, in mano a persone abili che la sapevano usare, diventava una formidabile arma da difesa e offesa.
Quando l’itinerario era pericoloso perchè si percorrevano strade solitarie e malfamate e il carico era troppo invitante per i malintenzionati, i carrettieri erano soliti riunirsi a gruppi nei fondaci (bottege in cui si vendevano un tempo i tessuti al minuto) e poi, in fila indiana, si avviavano protetti dal numero. Era molto pericolosa nelle nostre contrade la salita di Capo S. Alessio, ma lo erano anche le salite dei ponti che scavalcavano i torrenti perchè le bestie, sotto il peso dei carichi, andavano piano, offrendo la possibilità ai ladri di salire sul carro e rubare una parte del carico (successivamente accadde lo stesso con camioncini scalcinati e sbuffanti) approfittando magari della sonnolenza del carrettiere, il quale era solito farsi una pennichella fiducioso che il cavallo conoscesse così bene la strada da portarlo alla meta.
Mastrantoni, l’unico ladro ufficiale del nostro paese, autentico e impenitente robbajaddhini, attuava una tattica diversa. Si avvicinava al carro, si metteva vicino al conducente e muoveva le mani davanti al suo viso per sincerarsi che dormisse profondamente e poi, tranquillamente, rubava qualcosa che gli permettesse di riempire la pancia e fare un modestissimo affare. Non aveva paura di essere scoperto perchè le patrie galere erano la sua residenza abituale e la sua aspirazione era di ritornarci per vivere qualche giorno a sbafo.
Chi invece considerava il mestiere di carrettiere il più bello del mondo, interessante, invitante, appagante e che forse l’aveva anche scelto per passione era ‘u Campiuni. Minuto nella persona, sciancato, con l’eterna coppola in testa, si sentiva a suo agio sul carretto che gli permetteva di guardare dall’alto le persone. Era molto compenetrato nel suo ruolo; si sentiva forse come Fetonte che con il suo carro trainava il sole. Era nato per fare il carrettiere, non lo fermavano le intemperie nè i malanni. Il sio era un mestiere antico e ne rispettava le regole e le movenze. E antiche erano le cantilene che di tanto in tanto intonava, espresse con un linguaggio, una intonazione e una musicalità che venivano da tempi lontani:
“Quannu nascisti tu nasciu ‘na rosa,
l’uduri si sintiu di la me casa…”
o altre filastrocche che nessun altro sapeva cantare in quel periodo. Così cantilenavano i carrettieri una volta e così cantava lui.
Il lavoro lo trovava sempre: trasportava sabbia, laterizi, cascitti di custaddeddhi, masserizie, sempre pronto a sgobbare pur di stare con il suo adorato cavallo. Sembrava che fosse tutt’uno con il suo carro e la soma, che talora che talora frustava e incitava. Al suo animale voleva sicuramente bene, era più di un familiare e sicuramente la cosa sua più preziosa.
Anche per lui un giorno finirono i sogni. Arrivarono le “Api” ed i motocarri fracassoni che trasportavano carichi maggiori e si muovevano più celermente. Tanti cambiarono mezzo di trasporto, ma lui continuò imperterrito. Lui era nato per fare il carrettiere e solo il carrettiere. E si prese la sua rivincita. Si fece costruire uno di quei carretti siciliani riccamente istoriati che valevano una fortuna (al suo posto si poteva comprare una… Ferrari) e con quello, nei giorni festivi, vestito e tirato a lucido anche lui, si faceva un giro in paese stazionando nella piazza e portando a spasso le persone, fra l’ammirazione di tutti. Forse da qualcuno si è fatto anche pagare per il disturbo. Ma non era questa la cosa più importante. Lui con il suo carretto da festa e il cavallo riccamente bardato sfavillavano al centro della piazza. Poteva sfidare i suoi concorrenti motorizzati a fare altrettanto: a lui sarebbe toccata la palma del migliore.
N.B. Testi tratti dal libro “SALVIAMO ‘A MUSTICA” Furci Siculo tra storia tradizioni e lingua, di Franco Maccarrone. Pubblicato nel Luglio 2006.
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