Storie di Sicilia
1943-1945: L’ESPANSIONE DEL POTERE DELLA MAFIA AL NORD, “INCONTRAVA” LO STATO
La fine della guerra in Sicilia nel luglio del 1943, cioè due anni prima della fine della stessa sull’intero territorio nazionale, provocò una situazione di disorientamento generale del quale si giovarono i boss della mafia per ricostruire il loro potere di tipo feudale, in virtù del quale avevano dominato incontrastati per ben due secoli.
Il periodo che va dal luglio 1943 alla fine del 1945 fu nefasto in Sicilia per l’ordine pubblico, e perché i poteri dello Stato erano surclassati e umiliati dal potere militare delle truppe di occupazione americane, e perché la mafia era stata “ufficialmente” investita del potere amministrativo e anche militare, potere non sottoposto a controllo e non soggetto all’obbligo dell’osservanza delle leggi dello Stato italiano, e ciò mentre il resto del Paese era sotto il dominio nazista.
Né le cose migliorarono dopo tale periodo, perché all’insegna della lotta contro “il pericolo comunista” – diventata ragione di Stato – in Sicilia tutto fu permesso, tutto fu possibile e tutti fecero il loro comodo, e molti gravi fatti illegali, arbitrari e violenti furono accettati o subiti come “necessità nell’interesse supremo dello Stato”…
E in questi anni ed in questo clima politico che il potere mafioso divenne fenomeno nazionale articolandosi e intersecandosi con altri squallidi poteri, alcuni dei quali, in sede nazionale, diedero vita a inconcepibili quanto misteriose illegalità; “banchieri di dio”, Fiumicino, Federconsorzi, Petroli, Eni-Petromin, Iri, carceri d’oro, fondi neri, Montedison, falsi danni di guerra, ecc. ecc.; e ancora l’epopea del bandito Giuliano, piazza Fontana, Sifar, industria delle armi, affare Moro, Bnl, P2, caso Calvi, e via via fino a Ustica, tutti fatti nei quali lo Stato è rimasto coinvolto e contaminato, perché è stato impotente o compiacente, e, soprattutto, perché ha sempre solidarizzato con gli autori degli scandali e coperto i vari misteri. E questa e mafia.
Per la mafia – che dal 1943 tramite la consorella d’oltre oceano era riuscita ad agganciare i servizi segreti americani – è stato facile gioco inserirsi nel sistema del potere politico nazionale, trasferendovi le proprie esperienze e intrecciando rapporti con altri notabili politici e con burocrati senza scrupoli. Con tutti costoro essa si servì della vecchia prassi del “reciproco favore” col quale i boss di tutti i tempi hanno costruito i loro successi e le loro fortune.
Questa nuova espansione della mafia su tutto il territorio nazionale è stata favorita anche, e soprattutto, dal fenomeno dell’emigrazione degli anni Cinquanta-Sessanta, fenomeno che ha portato nel Nord una massa di forza lavoro ed elettorale, in seno alla quale erano anche molti “picciotti”, dei quali la mafia si è servita per controllare i rapporti industria-lavoro-voti per conto di quelle stesse forze politiche per le quali si era impegnata la Sicilia sin dall’immediato dopoguerra.
È così che la mafia risorta ha ricostruito tutto il vecchio potere politico-economico-sociale, sguazzando nel clima di illegalità e strumentalizzando fatti apparentemente leciti, a copertura di altri fatti illegali, i cui protagonisti hanno i nomi di Michele Sindona, Camillo Crociani, Giovanbattista Giuffrè, Licio Gelli e simile compagnia; tutto ciò con la tacita condiscendenza – quando non addirittura complicità – di notabili politici del potere, sia a Palermo che a Roma.
Va ricordato, inoltre, che prima di tali fatti, in un momento di estrema tensione ed emergenza, la mafia in Sicilia era riuscita a trascinare sul territorio delle complicità e dell’omertà persino onorevoli rappresentanti dei poteri dello Stato, inviati a Palermo per combattere la criminalità organizzata assurta a forza di feroce violenza, anche se procacciatrice di voti all’insegna del “pericolo comunista”.
In quest’ottica va letto il fenomeno del bandito Salvatore Giuliano, classico leggendario bandito populista, datosi alla macchia per un banale “’ntrallazzo” di tre tumuli di grano, per difendere i quali uccise un carabiniere. Giuliano aveva vent’anni e tre mesi quando in contrada Quarto Mulino di San Giuseppe Jato, sulla strada per Palermo, uccise il carabiniere Mario Mongino.
Il 2 settembre 1943, due mesi dopo l’occupazione della Sicilia da parte delle truppe anglo-americane – cioè appena caduta la dittatura fascista, in una situazione di sfascio in conseguenza della guerra perduta -, il giovane Salvatore (Turiddu) Giuliano, come tanti suoi coetanei, stava portando a Palermo 42 chili di grano, dal cui ricavato sperava di comprare pasta, zucchero, sapone e altri generi di assoluta necessità.
Fermato da una pattuglia di carabinieri, che tentò di sequestrare il grano non in regola con i bandi emanati dai diversi poteri provvisori, si diede a precipitosa fuga. Era armato di una rivoltella Smith Wesson calibro 32, e fu questa, più che il grano, a farlo scappare, mentre i carabinieri intimavano l’alt sparando alcuni colpi di moschetto mod. 91 in aria. Giuliano a sua volta sparò all’impazzata in direzione dei militari dell’arma colpendo mortalmente il carabiniere Mongino.
Fu così che ebbe inizio la latitanza di uno dei più noti banditi di questo ultimo dopoguerra.
Sulla vita di Giuliano e della banda da lui capeggiata sono corsi fiumi di inchiostro e sono stati realizzati anche ottimi film. Tuttavia, ancora oggi, a più di quarant’anni (vedi nota in basso) dalla sua morte, è difficile definire questa complessa personalità dalle molteplici e contraddittorie sfaccettature.
Favorito e protetto in una prima fase da pastori e contadini, per i quali era assurto a simbolo di ribellione contro tutte le ingiustizie sociali, in seguito antisocialista e anticomunista come poteva esserlo solo un feroce bandito al servizio della mafia e degli agrari impegnati, per la conservazione di un sistema ancora feudale, a stroncare e abbattere il movimento contadino, Giuliano trovò nella massa dei miseri che vivevano nelle campagne di Montelepre e dei dintorni una quantità di protettori che lo aiutarono a vivere alla macchia sfuggendo ai numerosi rastrellamenti.
“Giova ricordare”, hanno scritto molti anni dopo i commissari dell’antimafia nel volume XXIII n. 2, “che all’inizio l’attività banditesca di Giuliano è quella del comune delinquente, che non volendo fare i conti con la legge, non solo cerca di evadere le sue responsabilità, ma, per coprirle, non si perita di commettere di commettere altri delitti. E così da una bravata all’altra, da un sequestro di persona alla minaccia per ottenere protezione, continua la sua attività di bandito, vivendo sicuro nella zona di Montelepre.
E tuttavia, in queste “bravate”, la sua violenza sanguinaria non risparmiò neppure gli stessi agrari e gabelloti, che pure si erano serviti spesso di lui, tanto che sulla strada di Castellammare del Golfo, paese di boss della mafia e di politici boss, fu trovato un cadavere di un noto gabellato con la faccia coperta di sterco di vacca e con a collo un cartello con scritta: “Così Giuliano tratta i mafiosi”.
Nel 1944, Giuliano è già convertito al separatismo, l’organizzazione che si autodefinisce apolitica e apartitica, ma che, invece, opera ed agisce in funzione della destra agraria feudale contro i partiti della sinistra, socialista e comunista, e contro le leghe e le cooperative dei contadini impegnati nella lotta per la conquista delle terre incolte e mal coltivate.
Nel 1945, Giuliano viene nominato colonnello dell’Evis (Esercito volontari indipendenza siciliana) alle dirette dipendenze del conte Giuseppe Tasca, comandante generale dei volontari della Sicilia occidentale, mentre nella Siciliaorientale i comandanti erano il duca Paternò di Carcaci e il barone La Motta.
Significativo il fatto che l’Evis era disposto persino a fiancheggiare la monarchia sabauda in Sicilia, rinunciando così all’obiettivo apparentemente primario del separatismo, piuttosto che consentire l’affermazione di una maggioranza repubblicana nella Costituente, fissata per il 1946.
Il bandito-colonnello chiude l’anno 1946 incontrando gli ispettori di pubblica sicurezza Ciro Verdini e Ettore Messina e il procuratore della Repubblica di Palermo, Emanuele Pile, da cui, nella ricorrenza delle feste natalizie, riceve “brevi manu” un panettone Motta e una bottiglia di champagne.
Il 1° maggio 1947, Giuliano e la sua banda sparano numerose raffiche di mitra contro i contadini dei paesi di Piana degli Albanesi, San Giuseppe Jato e San Ciprirrello radunati nel pianoro di Portella delle Ginestre per una duplice ricorrenza: la festa del lavoro e la vittoria riportata dalle forze della trasformazione nelle elezioni del 20 aprile per il primo parlamento dell’Assemblea della Regione autonoma di Sicilia.
Con tale efferato crimine, il bandito e le forze politiche di destra cui egli è legato vogliono non solo punire i lavoratori schierati con il Blocco del popolo, ma anche lasciare un messaggio agli elettori dei paesi delle province di Palermo e di Trapani per le elezioni nazionali, annunciate per la primavera successiva.
Le raffiche di mitra durano tre minuti e lasciano sul terreno 11 morti e 56 feriti, oltre a 29 quadrupedi uccisi o feriti.
La stage di Portella delle Ginestre – voluta dalla mafia e dalla destra – fu organizzata per incrinare la ricerca di una intesa tra il Blocco del popolo, la sinistra della Democrazia cristiana e alcuni gruppi politici locali che nell’autonomia della Regione vedevano lo strumento per la rinascita della Sicilia.
Fu facile per i boss della mafia e per i politici boss convincere Giuliano che il successo ottenuto dal Blocco del popolo nelle elezioni del 20 aprile avrebbe rappresentato – specie se ripetuto nelle successive elezioni nazionali del 1948 – il crollo definitivo delle sue aspirazioni, non tanto perché sarebbe sfumata la possibilità di quel “ritorno alla normalità” di cui era imbastita l’operazione di destra garantita da Giuliano con le armi, ma specialmente per il fatto che i contadini – che già lo avevano tradito non avendo rispettato il suo mito ed avendo votato per il blocco socialcomunista – lo avrebbero certamente ritradito e consegnato alla polizia.
L’aggressione di Portella delle Ginestre fu, quindi, vendetta per il presunto tradimento dei contadini e avvertimento per tutti coloro che si ponevano sulla stessa via.
Scagliando il bandito e la sua banda contro la folla inerme e indifesa, i mandanti sapevano che il fatto avrebbe avuto ripercussioni e conseguenze sui rapporti tra le diverse forze politiche sia per la costituzione della maggioranza nell’Assemblea legislativa, sia per la formazione e l’indirizzo del primo governo della Regione. Essi erano certi che la Dc, dopo uno scontro su fatti irreparabili e su problemi di municipio, non avrebbe accettato la collaborazione con i “socialfusionisti”, la cui azione politica parlamentare, a Palermo e a Roma, dopo la strage, avrebbe chiamato in causa il governo e per esso la Democrazia cristiana. L’irriducibile anticomunismo del ministro degli Interni, il siciliano Mari Scelba, avrebbe lasciato poco spazio alle eventuali reazioni, e ciò sarebbe stato il motivo dominante – come difatti fu – dello scontro tra Dc e sinistra, fatto questo che avrebbe provocato la definitiva rottura politica tra democristiani e comunisti, con il risultato inevitabile che i tentativi di accordi, palesi o sottobanco, tra la sinistra Dc, guidata dall’onorevole Giuseppe Alessi, e il Blocco del popolo sarebbero andati a farsi benedire. E così difatti fu.
NOTA 1. I testi sono tratti dal libro “OMERTA’ DI STATO da Salvatore Giuliano a Totò Riina”, di Michele Pantaleone. Prima edizione del maggio 1993.
NOTA 2. La foto (raffigurante un corteo per le strade di Palermo ai tempi del bandito Giuliano), è tratta dal libro “Salvarore Giuliano il “re” di Montelepre” di Angelo Vecchio. Stampato nel maggio 2001.
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