Storie di Sicilia
Giovanni Verga. Vita ed Opere di un grande scrittore catanese
Secondo l’atto di battesimo e un’annotazione del padre su un libro di conti conservato tra le carte di famiglia, Giovanni Carmelo Verga vedeva la luce a Catania il 2 settembre 1840.
Il padre, Giovanni Battista Verga Catalano, nato a Vizzini, centro agricolo dei Monti Iblei in provincia di Catania, discendeva dal ramo cadetto di una famiglia alla quale appartenevano i baroni di Fontanabianca, e si era stabilito a Catania in sèguito al matrimonio con una signorina della borghesia catanese, Caterina di Mauro. Il trasferimento non aveva però spezzato i legami con Vizzini, dove i Verga avevano proprietà terriere, sicchè quel luogo e vicine campagne non dovevano mancar di fornire elementi d’ispirazione allo scrittore.
Non era che quindicenne quando s’accingeva a un primo romanzo, “Amore e Patria”, inserendone la vicenda in una cornice storica vista attraverso le suggestioni create in lui da un fantasioso suo maestro, Antonio Abate, mediocre poeta e ardente patriota rivoluzionario. Se del romanzo l’Abate s’entusiasmava, un meno estroso ma più illuminato maestro del giovinetto autore, il canonico Mario Torrisi, ne sconsigliava la pubblicazione; e l’opera, in verità immatura, restava inedita.
Inscrittosi alla facoltà di legge dell’Università di Catania nel 1858, il pur sempre giovanissimo autore si metteva a un nuovo romanzo, “I carbonari della montagna”, ambientandone le vicende in Calabria al tempo di Gioacchino Murat ma attribuendo a personaggi di quell’ormai lontano periodo sentimenti del 1859. era giusto il ’59 l’anno in cui ne iniziava la stesura, e si trovava ancora impegnato in essa quando, nella primavera del ’60, avevano inizio i moti insurrezionali che si estendevano a tutta la Sicilia in sèguito allo sbarco dei Mille a Marsala e al trionfale procedere di Garibaldi nell’isola.
Istituitasi a Catania, in quelle contingenze, la Guardia Nazionale, vi si arruolava. Ma scarsamente inclinato alla vita militare, e dati giù, d’altronde, gli iniziali entusiasmi patriottici, in capo a quattro anni otteneva l’esonero con il versamento di trecento lire alla Tesoreria Provinciale. Si era trovato, oltre tutto, ad assistere, e forse a dover partecipare, a misure repressive di moti insurrezionali in verità trascorrenti od eccessivi, e non è da escludere che da queste esperienze possano essere venuti lieviti a una novella ch’egli scriverà su ricordi di allora, Libertà, nella quale è la rievocazione amara del tragico crescendo degli eccidi da parte del popolo sollevatosi contro i così detti “galantuomini” ch’erano poi i baroni, i notabili, detentori delle proprietà terriere o comunque possidenti.
Nemmeno alle discipline giuridiche doveva sentirsi inclinato, se nel 1861 si era già deciso a interrompere gli studi universitari. Il denaro che avrebbe dovuto servirgli per compiere quegli studi, veniva impiegato (consenzienti i genitori, i quali non intendevano ostacolare la vocazione letteraria di lui, anzi favorivano) per far uscire a Catania “I carbonari della montagna”. Il romanzo, ripudiato poi dall’autore, veniva infatti edito in quattro volumetti fra il 1861 e il 1862.
Frattanto il giovanotto aveva anche cominciata una sua attività giornalistica, fondando nel 1860, con il suo già maestro Antonio Abate e Nicolò Niceforo, il settimanale politico “Roma degli Italiani”, dal quale si ritraeva l’anno dopo, insieme al Niceforo, per dissensi con l’Abate, fautore, sì, dell’unità d’Italia, ma sostenitore, per la Sicilia, di un’autonomia amministrativa. Data vita al periodico “L’Italia contemporanea”, del quale usciva però soltanto un numero, e poi all’ “Indipendente”, ceduto all’Abate dopo dieci numeri, tornava a ristringersi alla propria attività di narratore, alla quale apparteneva – uscito nelle appendici della “Nuova Europa” dal 13 gennaio al 15 marzo del 1863 – il suo terzo romanzo, “Sulle lagune”: non romanzo storico, benché il quadro vi sia politico: “evocazione della Venezia ancora in attesa di liberazione, ma con prevalenza data al racconto di cronaca contemporanea, in cui, secondo il primo grande studioso di Verga, Luigi Russo, saremmo già in presenza del narratore della vita galante, il quale acquisterà fisionomia a partire dal prossimo romanzo, Una peccatrice”.
Il 5 febbraio del 1863 gli era morto il padre. Non so se questo avvenimento contribuisse a disporlo a una forma di disancoraggio. Fatt’è che non dovette tardare a sentirsi maturo a quell’evasione con la quale, in quel torno, i migliori giovani siciliani miravano, fu detto, a un’attività nel continente, la quale rispondesse a un’esigenza interiore non più soltanto siciliana, ma italiana.
Resta, a ogni modo, che la speranza di un più facile e cospicuo successo, anche economico, sia da considerare tra i coefficienti della tendenza a sottrarsi a un ambiente di scarso respiro culturale e di modeste risorse finanziarie, quale è da credere apparisse l’isolano a uno scrittore bisognoso, una volta determinatosi per carriera, appunto, di scrittore, di farsi più largamente conoscere e di meglio procurarsi i mezzi di bastare a se stesso.
Ma una spia sulle ragioni di questo bisogno di mutar cielo può offrirlo anche il romanzo Una peccatrice” (Torino, 1866). L’autore aveva l’aria di farvi in persona dell’eroe principale, Pietro Brusio, una propria esperienza mondana. Ascoltate Federico De Roberto, ch’è stato, con Luigi Capuana, uno dei più fedeli amici, oltre che caldo seguace, di Verga. “Nel libro è adombrata un’avventura catanese, affibbiata dall’autore al supposto Pietro Brusio per forviare l’attenzione da se stesso che ne era il vero protagonista”. È il libro che meglio aiuta a riportarsi alla Catania di intorno al 1865, nel qual anno fu scritto. Ascoltiamo anche Lina Perroni, informatissima, per la sua familiarità con la più gran parte dei documenti verghiani. “Se andate a Catania, vi par di potere a ogni passo segnare i luoghi dove Giovannino Verga passava le sue giornate”. E vi cita la Marina, i viali dove gli zerbinotti incrociavano le signorine, nelle serate estive, quando la banda municipale sonava nel largo piazzale, non lontano dal molo stretto e nero; che si protendeva come una lunga proboscide sul mare scuro; o la via Etnea, principale arteria cittadina, interminabile nella sua lenta salita dal mare verso l’Etna che affaccia le sue nevi anche più bianche a contrasto con gli edifici neri della città costruita di lava: lì, nei pomeriggi che sembrano non avere mai fine nel sud, i giovanotti eleganti cercavano di ammazzare le ore, sorbendo la granita ai tavoli all’aperto lungo i marciapiedi o, appoggiati ritti sugli stipiti delle porte dei caffè, crogiolandosi “al buon sole che scintillava sulle scarpe di coppale e incandidava i bei gilets bianchi con i risvolti tagliati a punta o rotondi”.
Proprio in quei passaggi, di via Etnea, al “Rinazzo”, Pietro Brusio aveva incontrato per la prima volta la signora piemontese che doveva accendergli la immaginazione e il sangue, Narcisa Valdesi, contessa di Prato. E dalla villa Bellini, il giardino pubblico a mezzo la via Etnea, che ai tempi di “Una peccatrice” si chiamava “Il laberinto”, un amico gliene aveva additato, un po’ discosto sulla via Etnea, la casa, anzi i ‘veroni’ per usar proprio le parole del romanzo.
Sì, Pietro Brusio non era poi altro che Giovannino Verga, e della “paccatrice” sapevano un po’ tutti le vicende, a Catania, prima di leggere il romanzo. Che Giovannino rispondesse un po’ anche al tipo cui dovevano rispondere tanti altri giovanotti di quella Catania d’allora, par probabile: città di provincia, in fondo, dove diventa fatale che una forestiera la quale ci venisse, si vedesse cadere ai piedi tutta la gioventù maschile fuggita dalle beltà locali nell’orizzonte ristretto dai locali pregiudizi, e avida d’inusitate esperienze in ben alta latitudine d’orizzonti. “in una città come Catania, con il babbo che ti conta i soldi in tasca, e guarda l’orologio la sera quando torni a casa, non si può essere uomini, non si può”.
Sotto sotto, è vero, lavorava in Pietro Brusio, e lavorava in Verga, l’ispirazione a farsi conoscere quale artista, ad acquistare gloria, sì che l’amore, l’amore di una donna eccezionale arrivasse come un riconoscimento dell’ingegno eccezionale. E precisamente questa aspirazione dovette rendere Giovannino insofferente al mondo ristretto di Catania, e bramoso di più vasto mondo in cui gli fosse meglio possibile affermarsi. Certo, una città come Firenze, allora capitale d’Italia, doveva essere altra cosa da Catania; certo, l’aria del continente doveva essere altra cosa da quella dell’isola! Così fu che un bel giorno di maggio del 1865, Giovannino spiccò il volo verso Firenze, per soggiornarvi un paio di mesi, e per tornarvi poi sempre più di frequente, fino a fermarvisi, nel 1869, dall’aprile al settembre.
È una delizia seguire, attraverso certe lettere di questo periodo del ’69 alla madre e a un fratello, l’impegno posto da Giovannino per mettersi al passo con la moda. Benché, prima di partire da Catania, avesse provveduto a rinnovarsi il corredo, arrivando a Firenze s’era trovato subito demodè. L’abito nuovo? Impresentabile! E le scarpe? Gliene mandassero altre, ma che non fossero per carità quelle di coppale che sarebbero state assolutamente ridicole per passeggio. Anche i bottoni, così grossi, degli stivaletti, davano orribilmente nell’occhio a Firenze, dove tutta la gente ammodo li aveva piccolissimi. ‘O come mai’ gli chiedevano da casa, alquanti giorni dopo il suo arrivo a Firenze, ‘non era ancora andato a far visita agli illustri per i quali aveva lettere di presentazione e che avrebbero potuto aiutarlo a lanciarsi?’. “Non ho ancora recapitato le mie lettere commendatizie perché intendo prima farmi gli abiti”. E intanto dava di questi consigli per la più giovane delle sorelle: “A Teresa fate crescere i capelli lunghi sulle spalle, sciolti, che così li portano qui tutte le ragazze”.
Mario Rapisardi, il poeta catanese che nel 1869 non aveva che venticinque anni ed era ancora alle prime armi, gli aveva fornito lettera di presentazione per Francesco Dall’Ongaro, patriota, professore, giornalista, poeta, autore drammatico, il quale era una grande autorità letteraria nella Firenze di quei tempi. Ma prima d’andare a fargli visita, Verga lasciava passare un buon mese, in attesa dell’abito adatto. Ci andava finalmente. E avuta buona accoglienza, non tardava a fargli leggere “Una peccatrice”. Dall’Ongaro gliela elogiava oltremodo. Ed egli, ormai ventinovenne, ma rimasto, nella permeabilità all’elogio, quasi ancora un adolescente, tanto da non accorgersi che il suo giudice non era poi un artista così grande e un così grande critico, ne rimaneva lusingatissimo. Certo, nel Dall’Ongaro, Verga trovò per tutto quel periodo fiorentino incoraggiamenti a produrre e aiuti a divulgarsi. Pensava già a un romanzo ambientato quasi interamente a Firenze, “Eva”. L’aveva anzi cominciato già a Catania, dopo il primo soggiorno fiorentino, nel 1865. e a Firenze lavorava adesso alla “Storia di una capinera”, cui si metteva, precisamente, il 23 giugno di quell’anno 1869, e che il Dall’Ongaro farà accettare, nel maggio dell’anno dopo, dall’editore Lampugnani di Milano. Frattanto, teorizzava esperienze che, fatto sedimento, avrebbero forniti lieviti, oltre che a “Eva”, ad altri romanzi d’ambiente in gran parte fiorentino, in giorni in cui a Firenze non sarebbe stato più: alludo a “Tigre reale” e a “Eros”. Quelle esperienze le faceva nelle cerchie intellettuali e mondane, a cominciare dal salotto letterario del Dall’Ongaro, dove la domenica si faceva musica e conveniva una eletta società. S’incantava tra l’altro ad ascoltare il duetto di canto delle bellissime figlie di una distinta pittrice tedesca, la signora Swanzberg, accompagnate dalla loro sorella maggiore, stupenda pianista. Dall’Ongaro aveva provveduto a introdurlo nel salotto di Ludmilla Assing, altra signora tedesca, scrittrice, la quale non tarderà a parlare di “Una peccatrice” nella “Neue Freie Presse” di Vienna.
Casa modesta, quella di Dall’Ongaro. Ma, dalla Assing, che splendor di salone, che squisitezza di rinfreschi, serviti ogni mezz’ora! E il palazzo di Swanzberg, ai cui ricevimenti era pure invitato? Bellissimo, con giardino incantevole, terrazza magnifica con colpo d’occhio su Firenze tutta visibile nel lume di luna; gran rinfreschi anche lì; bella società d’uomini illustri e donne celebri…
Alla vigilia della sua prima visita a Dall’Ongaro, aveva avvicinato il capocomico Coltellini, per il quale aveva lettera di presentazione di Nicolò Niceforo, e, avendo avuto libero accesso al palcoscenico dell’Arena Nazionale, era stato presentato alla prima attrice, la De Paladini, e aveva passato con lei e con un amico un’intera serata. E c’è da scommettere che da questa esperienza fatta nel mondo teatrale – specie del mondo teatrale dietro le quinte – venissero in seguito spinti a incremento di elementi entrati già in “Eva”. In “Eva”, il tipo della protagonista rispondeva, originariamente, a quello d’una francese, la quale aveva a Catania un negozio di biancheria con l’insegna A la robe blanche. Così almeno ha asserito il Niceforo. Ma che quel tipo potesse venire, in processo di elaborazione, ricreato, non è da escludere: fatt’è che, in “Eva”, di una ballerina del teatro fiorentino della Pergola si tratta.
Di un lavoro teatrale giovanile di Verga, “I nuovi tartufi”, si sa per notizia indiretta. A Firenze, in questo periodo in cui i suoi primi contatti erano con il mondo del teatro e, vien voglia di aggiungere, con la De Paladini, Verga scriverà, per quasi certo, il lavoro teatrale “Rose caduche”, in cui, si noti, la protagonista è un’attrice della quale un giovane scrittore si innamora follemente. Luigi Russo aveva collocato questo lavoro tra il 1873 e il ’75, avendo creduto di riscontrarvi il clima di romanzi di Verga di quegli anni. Giulio Cattaneo, autore di una biografia verghiana apparsa nel 1963, propende invece a concordare con la Perroni che lo assegna a questo periodo fiorentino del 1869. E poiché egli insiste nel precisarlo derivato da “Una peccatrice”, saremmo, vien da rilevare, a un primo esempio della tendenza di Verga a trar lavori teatrali da precedenti sue opere narrative.
È positivo che Verga terminava adesso a Firenze una commedia della quale mandava il 12 giugno a Catania il manoscritto, nella speranza che un capocomico gliela mettesse in repertorio. Non ne usciva nulla. “Sto anche lavorando”, leggiamo pure in una sua lettera di questo periodo, “a una commedia in quattro atti, l’onore, il cui soggetto piace al Dall’Ongaro e anche a me; mi ci metterò coll’arco della schiena e spero concorrere qui al Concorso Drammatico Governativo dell’anno venturo facendola rappresentare qui quest’inverno da Bellotti Bon ch’è amicissimo di Dall’Ongaro”. E in altra lettera, del 2 luglio, riferiva il giudizio datogli da Dall’Ongaro: letta la commedia, questi gli aveva dichiarato di trovarla superiore a tutte le altre delle quali gli erano giunti i manoscritti come a presidente della Commissione per il Concorso Drammatico Governativo, e di porla molto, ma molto al di sopra dei lavori applauditissimi del Torelli. Iperbolico elogio!
Nelle cerchie intellettuali e mondane di Firenze, Verga aveva incontrato anche Giselda Fojanesi, destinata a una lunga storia nella vita di lui. Ella non era che diciottenne, nel 1869, quando egli la vedeva la prima volta, in casa del Dell’Ongaro. Ottenuto da poco il diploma di maestra elementare, Giselda aveva aderito a proposta fattale dalla direttrice del Convitto provinciale di Catania, recatasi a Firenze per cercarvi una maestra fiorentina che insegnasse l’italiano in quel Convitto. Ed ecco quanto Verga scrisse in una lettera del 26 agosto, preparandosi al ritorno in Sicilia: “Probabilmente nel viaggio sino a Catania sarò in compagnia delle signore Fojanesi, una delle quali viene maestria in questo Convitto Provinciale. Sono un poco parenti di Dell’Ongaro e raccomandate da lui a Rapisardi e a me”. Si metteva effettivamente in viaggio con le Fojanesi, e il 12 febbraio del 1872 Giselda, che nel frattempo aveva stretta una cara amicizia con Verga, sposava Rapisardi, cedendo ai delirii amorosi di lui.
Da Catania, dov’era rientrato in settembre, rispiccava il volo verso il continente al finir del novembre 1872. Firenze non era più la capitale, né v’era più Dall’Ongaro, passato a vivere a Napoli (vi moriva l’anno dopo). Se Roma era la capitale politica, Milano pareva offrirsi centro di maggiori possibilità per uno scrittore. La mèta delle evasioni di Verga diventava pertanto Milano. A facilitargli l’entrata in quelle sfere letterarie e mondane provvedevano lettere di presentazione, una di Dall’Ongaro a Tullio Massarani, uomo politico, ma anche dilettante pittore, poligrafo, e una di Capuana a Salvatore Farina, il narratore ben noto. In salotti come quello della contessa Maffei e di Vittoria Cima, incontrava esponenti della Scapigliatura, e si legava d’amicizia specialmente con Arrigo Boito e con Luigi Gualdo. In verità l’estremo romanticismo lombardo che con la sua carica di fermenti d’avvenire va sotto il nome di Scapigliatura milanese, poteva dirsi esaurito con il 1870, morto Iginio Ugo Tarchetti e ridotti ormai ombre di se stessi Giuseppe Rovani ed Emilio Praga, mentre Carlo Dossi entrava già in fase involutiva dopo le precocissime prove con “L’altrieri” e la “Vita di Alberto Pisani”, rispettivamente del 1868 e del ’70. Boito non era già più lo scapigliato che s’era preteso alle origini: svariava in alcunché di antitetico; e Gualdo apparteneva alla scapigliatura dorata, la più vicina, forse, alle predilezioni di Verga, affascinato come continuava a mostrarsi, sostanzialmente, dal mondo del lusso e della galanteria.
Ecco come Verga fosse veduto da Raffaello Barbiera, nel clima della capitale lombarda: “Lo incontravo nella società milanese più intellettuale, e anche nel così detto gran mondo, sì diverso dal presente. Bellissimo giovane dell’aria fatale. Fra il pallido e l’olivastro il volto dai fini lineamenti; neri i capelli ricciuti e i baffi e l’occhio vivo e nobili il portamento, il gesto. Molto riservato nel dialogo, quasi misurato nelle parole; non facile a chiamarsi amico, ma quando lo era sentiva tutto il valore dell’amicizia”. Ed ecco anche una testimonianza di Roberto Sacchetti, cronista della vita letteraria di Milano: “La prima volta che lo vidi fu in casa della Maffei una domenica sera che le due salette erano piene di signore tra cui sei o sette giovani e belle, e queste lo circondavano in modo ch’io non mi potèi appressare a lui. Lui stava là contegnoso in silenzio in mezzo al vivace cicalìo, e sorrideva di quel suo sorriso serio, a fior di labbra che fa malinconia. Per questo suo fare riservato, misterioso, che dimostra patimenti profondi, non meno che per la eleganza squisita del suo sentimento artistico, dicono che abbia delle avventure. Non gliene state a chiedere a lui; è così poco vanesio che non ve ne direbbe nulla, anzi vi riderebbe discretamente sul viso”.
Di Milano in genere Verga restava così ammaliato, da incitare fin dal 1873 Capuana a trasferirvisi: “Tu hai bisogno di vivere alla grand’aria, come me, e per noi altri infermi di mente e di nervi la grand’aria è la vita di una grande città”, gli scriveva. L’estate e l’autunno li passava, si, a Catania, ma tornava ogni anno a Milano con sempre nuovo entusiasmo. Appartiene al primo soggiorno milanese il compimento di “Eva” (5 febbraio 1873) ed è del ’73 la pubblicazione di essa e di “Tigre reale” a Milano, com’è del 1874 la composizione, e del ’75 la pubblicazione, sempre a Milano, di “Eros”.
Del 1874 è il racconto di Nedda. Sotto la spinta di esigenze delle quali ho largamente detto nella parte introduttiva, il narratore si mostra in via di volgersi, come a fonte d’ispirazione, al mondo degli umili, e in particolare, e dapprima, degli umili di Sicilia, e sarà la realtà dalla raccolta delle novelle “Vita dei campi” e del romanzo “I Malavoglia”, editi l’uno e l’altro a Milano, da Treves, rispettivamente nel 1880 e nel 1881.
Mortagli la madre nel 1878, Verga protraeva la propria permanenza a Catania fino al giugno del 1879, e continuava poi ad alternare i soggiorni in Sicilia con quelli milanesi. Ma si mettono nel conto anche puntate a Firenze e a Roma, nonché viaggi a Parigi, uno dei quali gli dava modo di essere ricevuto da Emile Zola, e due a Londra. Mentre s’allargava la sfera delle sue relazioni, nella quale entrano scrittori come lo svizzero di lingua francese Edouard Rod e Federico De Roberto, Edoardo Scarfoglio, Matilde Serao, Giuseppe Giocosa, Antonio Fogazzaro, proseguiva la sua attività di narratore, al balzello d’ispirazioni che potessero venirgli dal mondo degli umili studiato non solo in Sicilia, onde racconti entrati nella raccolta “Novelle rusticane” (Torino, 1883), ma anche a Milano, come possono documentare racconti della raccolta “Per le vie” (Milano, 1883), ma dal mondo altresì di classi più elevate: è infatti del 1882 “Il marito di Elena”, romanzo riconducibile al tipo inaugurato con “Una peccatrice”.
Del 1883 è la rottura di Rapisardi con Giselda, in seguito in seguito alla scoperta d’una lettera a lei diretta da Verga, dalla quale appariva evidente il perdurare di una relazione che aveva determinato, da parte di Rapisardi, non poche scene di gelosia. Se quella relazione doveva entrare presto in fase di declino, non veniva meno però tra i due l’amicizia, in cui Verga si era assunto la parte del protettore, com’è rilevabile del resto anche dalla lettera caduta in mano al marito, nella quale Verga s’indugiava su quanto egli veniva facendo a favore dell’amica, scrittrice, per la pubblicazione di bozzetti narrativi toscani nei quali ella eccelleva.
Nel gennaio del 1884 andava in scena Torino, al Teatro Carignano “Cavalleria rusticana”. Le previsioni erano più che nere. C’era voluto tutto l’impegno di un drammaturgo autorevole come Giacosa per indurre il capocomico Cesare Rossi a tentare l’impresa. Eleonora Duse interpretava il personaggio di Santuzza. L’esito fu straordinario, l’unico davvero clamorosamente positivo che Verga abbia avuto. Senza successo passa invece, al Teatro Manzoni di Milano, nel maggio del 1885, la rappresentazione di “In portineria”.
Verga aveva pubblicato una prima raccolta di novelle già nel 1876: “Primavera e altri racconti”. Erano poi seguite le già ricordate “Vita nei campi”, “Novelle rusticane” e “Per le vie”. Nel 1882 uscivano una novella, Il come, il quanto e il perché (Milano, Treves), e un’altra, Pane nero (Catania,Giannotta), andate poi ad accrescere, la prima, “Vita dei campi” e, la seconda, “Novelle rusticane”. Rispettivamente del 1884 e del 1887 sono le raccolte, piuttosto eterogenee quanto ai motivi d’ispirazione, tratti ora dal mondo aristocratico o borghese e ora da quello popolare, “Drammi intimi” e “Vagabondaggio”; nel 1891 uscirà la raccolta “I ricordi del capitano d’Arce” e nel 1894 quella intitolata “Don Candeloro e C.i”. ma l’opera cui è da fare, a questo punto, un posto cospicuo, è il romanzo “Mastro don Gesualdo”, dato fuori nella “Nuova Antologia” fra luglio e dicembre del 1888, e poi in buona parte riscritto per l’edizione fattane da Treves nel 1889.
È qui il luogo di ricordare che fin dal 1878 Verga aveva abbozzato il progetto del ciclo dei romanzi intitolato “I vinti”. Attuato con il titolo “I Malavoglia” i primo di quei romanzi, “Mastro don Gesualdo” rappresentava l’attuazione del secondo.
Il periodo cui può essere dato, grosso modo, il nome di milanese, si chiudeva per Verga nel 1893. Dal lavoro teatrale Cavalleria rusticana Giovanni-Targioni Tozzetti e Giudo Menasci avevano cavato un libretto per un’opera lirica in un atto. La fortuna avuta dall’opera, di Pietro Mascagni, aveva determinato una lite giudiziaria a definizione dei diritti spettanti a Verga. Se ne usciva con una transazione con l’editore dell’opera, Sonzogno, per la quale Verga riceveva “una volta per sempre” la cifra di centoquarantatremila lire. Era, per quei tempi, una bella somma. Verga acquistava così una maggiore indipendenza economica, e finiva col soggiornare sempre più a Catania. Non che cessassero per questo i suoi viaggi e soggiorni nella penisola, specie a Milano e a Roma, e anche all’estero: nel ’97, per esempio, girerà a lungo in Svizzera. Ma da allora Catania e non più Milano diventava la mèta, il luogo ideale in cui vivere.
Da una lettera di lui a De Roberto, del 7 aprile 1894, risulta che verga aveva già scritto il lavoro teatrale La Lupa, il quale veniva rappresentato per la prima volta nel gennaio del 1896 al Teatro Gerbino di Torino, con un certo successo, che si ripeteva a Milano, a Firenze, a Roma. Del novembre 1901 è l’andata in scena al Teatro Manzoni di Milano de La caccia al lupo e La caccia alla volpe, con migliore successo il primo lavoro, d’ambiente rusticano, chè La caccia alla volpe, di ambiente invece elegante, restava, in verità, alquanto al di sotto. E nell’ottobre del 1903 Verga vedeva rappresento a Milano, con mediocre successo, Dal tuo al mio, sicchè decideva di riscriverlo, trasformandone, come scriveva al Rod, “la forma troppo secca e troppo asciutta di commedia” in quella di “romanzo”: e in forma di breve romanzo appariva infatti nella “Nuova Antologia” dal 14 maggio al 16 giugno del 1905, e poi in volume, nel 1906, da Treves.
Ma il lavoro più impegnativo, messo e rimesso sul telaio a cominciare dall’estate del 1896 e tenutovi, pur con lunghi e talora lunghissimi periodi d’interruzione, restava “La duchessa di Leyra”, terzo dei cinque romanzi del ciclo “I vinti”. Tutto quello che rimane, o che, almeno, è stato trovato, si riduce al primo capitolo, a un frammento del secondo, a un elenco di personaggi e ad alcuni abbozzi, pubblicati postumi da Federico De Roberto.
Orfano del padre a ventitré anni e della madre a trentotto, sopravvissuto a una delle due sorelle (Rosa e Teresa) e a entrambe i fratelli (Mario e Pietro), dichiaratamente restìo a contrarre matrimonio e alieno dal legarsi troppo con donne pur amate, come la Foyanesi è, dal 1889, la contessa Dina di Sordevolo, Verga protrasse la sua vita in appartata solitudine. La sera del 24 gennaio 1922, a Catania, tornato a casa dal Circolo dell’Unione, che aveva sede in via Etnea e dove egli soleva trattenersi a lungo ogni giorno, mentre si svestiva per mettersi a letto fu colpito da trombosi. Soltanto alle otto del mattino la cameriera, bussato all’uscio ch’egli era solito chiudere a chiave di dentro, e non ricevuta risposta, diede l’allarme. L’agonia durò, senza che vi fosse ripresa di coscienza, per tre giorni, fino alle dieci e venti della mattina del 27.
Facilmente presago del poco tempo che gli restava ancora da vivere, nel marzo del 1919, e cioè nel suo settantanovesimo anno, aveva dichiarato a un giornalista: “Il mio più grande dolore è quello di non aver potuto finire il ciclo dei Vinti”. Amareggiato, nel fondo, dal senso che gli fosse mancato il sostanziale successo in cui si era illuso, specie dopo la pubblicazione de “I Malavoglia”, contrario, d’altronde, a ogni forma di esibizionismo, l’avevano, più che altro, infastidito le onoranze ufficiali tributategli in ocasione dei suoi ottant’anni, con una cerimonia a Roma, Teatro Valle, presieduta da Luigi Pirandello e presente Benedetto Croce allora Ministro della Pubblica Istruzione, e poi a Catania, al Teatro Massimo. Pare, per quanto ha raccolto Giulio Cattaneo, che il festeggiato, il quale aveva potuto sottrarsi soltanto in parte alle manifestazioni catanesi, raggiungesse, a cose finite, il Circolo dell’Unione ormai deserto a quell’ora notturna, e vi rimanesse a lungo, per un bisogno estremo di solitudine. Ben poco aveva dovuto entusiasmarlo anche la nomina a senatore, se si deve giudicare dall’estrema concisione con cui rispondeva al telegramma del Presidente del Consiglio, Giolitti, che gliela comunicava il 30 ottobre di quell’anno 1920.
NOTA: I testi sono tratti dal libro “Giovanni Verga, I Malavoglia”. Edizioni scolastiche, stampato nel 1984. (Riproduzione riservata).
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