Storie di Sicilia
Giuseppe Garibaldi e l’epopea dei Mille in Sicilia
STORIE DI SICILIA – La situazione d’incertezza nell’Italia centrale era un pericolo per la pace in Europa. Cavour, tornato al potere nel gennaio 1860, concluse un accordo con Napoleone. La Francia era uscita dalla guerra senza i vantaggi territoriali concordati a Plombière. L’ingrandimento del regno sabaudo nel Centro permetteva la riapertura del discorso sulla cessione della Savoia e di Nizza. L’accordo tra l’imperatore e Cavour sbloccò l’impasse. […]
L’11 maggio (è venerdì, e qualcuno fa gli scongiuri) le due navi giungono in vista dell’isola. Garibaldi ha progettato di raggiungere Sciacca. La mattina è avanzata e opta per Marsala, più vicina. Ferma in mare un peschereccio; il padrone gli da informazioni e gli fa da guida. Il governo borbonico ha previsto che la sua meta possa essere questo piccolo porto. Ha inviato nella zona vari reparti dell’esercito, che sono stati ritirati il 10. Sulla costa incrociano 6 navi da guerra a vela e 4 a vapore. Nessuna di esse è nel porto; sono al largo in perlustrazione. La cittadina è indifesa. Il Piemonte si àncora presso il molo, il Lombardo, più grande, si arena su una secca. I volontari cominciano a sbarcare. L’arrivo di due vapori sospetti, privi di bandiera, è segnalato a Trapani, capoluogo della provincia, per mezzo del telegrafo elettrico.
Si avvicina a Marsala lo Stromboli, una pirocorvetta a ruote con 6 cannoni. Il comandante, Guglielmo Acton, vede i due mercantili e gli uomini in camicia rossa sul molo, capisce che si tratta di Garibaldi. Arriva a distanza di tiro mentre è in corso lo sbarco. Potrebbe iniziare un cannoneggiamento micidiale. Esita. Lungo i moli vi sono gli stabilimenti Woodhouse e Ingham per la produzione e l’esportazione del pregiato vino marsala, appartenenti ai sudditi inglesi. Nel porto si trovano navi mercantili di diversa nazionalità (una stava uscendo quando sono entrati i garibaldini, e Bixio ha gridato di portare a Genova la notizia dello sbarco); in mattinata sono arrivate due navi da guerra inglesi, inviate a proteggere i beni dei connazionali, l’Intrepid, comandata da Marryat, l’Argus, comandata da quel Winnington-Ingram che a Montevideo ha disegnato nel suo albun le divise della Legione italiana.
Il capitano borbonico, temendo di danneggiare gli inglesi, parlamenta con i colleghi delle due navi, che gli chiedono di attendere che tornino a bordo alcuni marinai. Comincia a sparare quando i volontari sono ormai a terra, pochi colpi, senza effetto, imitato dalla fregata a vela Partenope, con 60 cannoni, sopraggiunta nel frattempo. “La nobile bandiera di Albione contribuì, anche questa volta, a risparmiare lo spargimento di sangue umano – commenterà Garibaldi -; e io, beniamino di cotesti Signori degli Oceani, fui per la centesima volta il loro protetto”.
Sulle navi non c’è fanteria da sbarco, e i legni borbonici restano al largo. I Mille si spargono per la cittadina. L’accoglienza non è entusiasmante. La popolazione cerca di non compromettersi con questi conquistatori male armati, stranamente abbigliati, che non sembrano in grado di competere coll’ordinario esercito borbonico. In due proclami il generale esorta i siciliani alle armi, e invita all’affratellamento i soldati borbonici, chiamandoli “italiani”. Si comincia a parlare di dittatura. Garibaldi l’accetta immediatamente, perché la crede “la tavola di salvezza, nei casi d’urgenza e nei grandi frangenti in cui sogliono trovarsi i popoli”. Crispi, siciliano, mentre politica della spedizione, la fa deliberare dal Consiglio comunale. Il Consiglio si riunisce una prima volta nel pomeriggio, e una seconda volta a tarda serata. Garibaldi vi partecipa entrambe le volte. Sappiamo quanto tenga ad avere la legalizzazione del suo agire. Nella cittadina siciliana dai dieci decurioni presenti (su trenta) ottiene che dichiarino decaduto il dominio borbonico n Sicilia e offrano a lui la dittatura “in nome di Vittorio Emanuele re d’Italia”.
I Mille passano la notte nell’abitato. Si rifocillano come possono, dormono in case private o in alloggi di fortuna. Garibaldi dorme in una casa signorile, mangia frugalmente pane, formaggio e fave, che sono la sua passione; a tavola c’è vino bianco, che non beve, perché è astemio. Fa chiedere coperte ai conventi per le successive evenienze. Dà incarico al viceconsole sardo a Marsala di reclamare i due vapori, ma i borbonici, tornati padroni della cittadina, rimorchiano il Piemonte a Napoli; il Lombardo resta arenato.
Il giorno dopo gli invasori prendono la strada dell’interno. Garibaldi è a cavallo, su una giumenta bianca, che ha chiamato Marsala, e porterà con sé a Caprera. Sono forniti di cavallo gli ufficiali e le Guide, che possono, così, espletare i compiti di avanguardia e di esplorazione. Un paio di carrozze accolgono anziani e indisposti, carri e carrette portano i bagagli. I volontari con i fondi municipali requisiti da Crispi hanno preso la prima paga, 85 centesimi a testa, e hanno avuto una pagnotta ciascuno. Il generale ha dato, come sempre, severe disposizioni per il rispetto delle persone e dei beni degli abitanti. La colonna si dirige verso Salemi, a oltre 35 chilometri di distanza, per strade di campagna, solitarie e mal tenute. Dopo quattro ore fa una breve sosta. Quindi è raggiunta da un primo gruppo d’insorti, una sessantina: bastano per rassicurare sull’esistenza di un fermento antiborbonico.
A sera la colonna, non inseguita né affrontata da nessuno, sosta a Rampingallo, in una masseria. Paolo Bovi, addetto all’intendenza, ha comprato da un pastore 14 pecore, il proprietario dà quel che ha. Non è facile sfamare 1200 uomini. Dà in abbondanza paglia, che serve da materasso e coperta ai volontari. Garibaldi dorme con loro, sotto una tenda, sulla sua sella: una sella americana, a diversi strati di cuoio, paragonabile, per la funzione, ai nostri sacchi a pelo. Gli ufficiali alloggiano al coperto. La Masa parte per Salemi, per chiedere all’autorità municipale di approntare 4000 razioni di pane, altrettante di pasta o riso, 2000 di carne, e poi vino, olio, caffè, zucchero, sale, candele. Saranno ottenuti anche cavalli, carretti, funi per l’artiglieria, le attrezzature per un’officina, denaro.
Il 13 (è domenica), a Salemi l’accoglienza è entusiastica. I volontari, affranti per la stanchezza e il grande caldo, trovano bandiere e una banda musicale, sono rifocillati, dormono al coperto. Si sono uniti altri gruppi di insorti, squadre di picciotti, a cavallo e armati, tanto da avvicinarsi al migliaio. Non avvezzi alla disciplina militare, saranno di poco giovamento sul campo di battaglia, ma la loro presenza al fianco dei volontari ha il significato politico della partecipazione popolare alla lotta per la liberazione dell’isola. Garibaldi e Sirtori danno un primo ordinamento, e li denominano Cacciatori dell’Etna. Alla testa di una delle squadre c’è un monaco francescano, frà Giovanni Pantaleo, da Castelvetrano, che si aggrega alla spedizione: in Sicilia gran parte del clero solidarizza con la rivoluzione. Garibaldi con un manifesto manda Ai buoni preti l’invito a unirsi a lui.
Il 14, dopo una deliberazione del decurionato, portatagli dal sindaco, parla alla folla, esortandola a combattere per l’unità d’Italia: quindi, “considerando che in tempo di guerra è necessario che i poteri civili e militari siano concentrati nella stessa mano”, assume solennemente la dittatura di Sicilia nel nome di Vittorio Emanuele II “re d’Italia”. Si affaccia al balcone, tra continui applusi. Copie del decreto sono affisse per le vie, mentre banditori lo leggono a gran voce. Nella sosta di due giorni si pensa all’armamento: si fanno cartucce, si fabbricano lance e picche, i cannoni son provvisti di affusti e di cavalli per il traino.
Alla notizia dello sbarco il principe di Castelcicala, luogotenente del re di Sicilia, ha chiesto rinforzi a Napoli, e altre truppe raggiungono Palermo. Un consiglio di generali decide di richiamare le colonne mobili, per concentrare la difesa intorno alla Conca d’Oro. Nel frattempo il generale Francesco Landi, già presente nelle province occidentali dell’isola con 2800 uomini, con 4 cannoni e reparti di cavalleria, va incontro agli invasori. Dal 7 al 12 si è trattenuto a Partinico e ad Alcamo per procedere al disarmo della popolazione. Non ha informazioni precise: crede di avere di fronte “un battaglione piemontese”. Il 13 si attesta Calatafimi, una cittadina su un colle, con un castello che domina la strada. Manda in ricognizione tre colonne. Una di queste, comandata dal maggiore Michele Sforza, inoltrandosi verso Salemi s’imbatte nel nemico.
Garibaldi ha studiato una carta della Sicilia. Come è suo costume, è andato a cavallo a esplorare la zona nella quale prevede di incontrare i borbonici. Fa dormire presso di lui Bandi, suo ufficiale d’ordinanza preferito. La mattina del 15 lo chiama alle tre. Appare di buon umore. Mentre prende il caffè canticchia un brano della Gemma di Vergy che fa al caso suo: “parmi veder sereno splendere il giorno che verrà”.
Torniamo a Salemi, e al momento del rito mattutino del caffè. Garibaldi sente una tromba che suona la sveglia. Fa venire il trombettiere. È un bergamasco, Giuseppe Tironi, che ha suonato la sveglia a Como, tra i Cacciatori della Alpi. Gli regala uno scudo. I volontari si mettono in marcia alle cinque e mezzo. A metà mattina sostano per un rancio frugale, pane fave. Poi avvistano i borbonici: dallo sbarco sono passati quattro giorni.
La zone è ondulata, con colline intorno ai 400 metri. Il maggiore Sforza ha 800 uomini con 2 cannoni e 40 cavalleggeri. Si colloca su un’altura, detta Pianto dei Romani, da Chiantu, vigneto. Garibaldi schiera i suoi su un’altura, il Monte Pietralunga. Tra i due schiera c’è una vallata. Sforza esamina da lontano gli avversari. Costata che non hanno divisa, le camicie rosse gli sembrano giubbe di galeotti, pensa a un’accozzaglia di avventurieri, che sarà facile sbaragliare.
Verso mezzogiorno prende l’iniziativa. Lascia la posizione favorevole in cui si trova, scende nell’avvallamento e risale la collina su cui stanno i garibaldini. Il fuoco dei carabinieri genovesi sorprende i napoletani, che, incalzati dai volontari, venuti avanti con un violento attacco alla baionetta, si ritirano verso le posizioni precedenti. La collina del Pianto dei Romani è coltivata a terrazze. I garibaldini, inseguendo il nemico, la risalgono. A ogni sbalzo riprende la lotta. Landi fa affluire rinforzi. Nel pieno della battaglia i Mille con alcune centinaia di siciliani fronteggiano circa 1.800 borbonici. Garibaldi, con la sciabola sguainata, combatte in prima fila, incitando i suoi. Un volontario, Daniele Piccinini, lo copre col suo mantello per nascondere la camicia rossa che attira le fucilate, un altro, Augusto Elia, lo protegge col suo corpo, vedendo che un soldato borbonico lo ha preso di mira, ed è ferito gravemente. I napoletani si battono “da leoni” (meglio degli austriaci in Lombardia, riconoscerà Garibaldi) e si giovano di armi migliori e della posizione favorevole. Bixio a un certo punto sussurra all’Eroe che è opportuno ritirarsi. “Qui si fa l’Italia o si muore”, è la solenne risposta tramandata dalla tradizione risorgimentale. Forse l’Eroe ha detto più prosaicamente “Ritiriamoci, ma dove?”, sottolineando che una sconfitta farebbe svanire l’appoggio dei siciliani e segnerebbe l’inizio della disfatta.
Alla fine sopravviene un centinaio di volontari attardati nella retroguardia. L’impeto dei nuovi venuti fa traboccare la bilancia. Ancora una volta ha trionfato la tattica garibaldina di tenere incessantemente il nemico sotto pressione. Con l’abituale sprezzo del pericolo per sé e per gli altri Garibaldi ha mandato al sacrificio i migliori. Tra i 32 caduti (non molti se pensiamo alle cifre delle guerre del Novecento, ma tanti in epoca in cui i fucili sparano un colpo per volta) Garibaldi ricorderà Simone Schiaffino, uno dei Cacciatori delle Alpi, prezioso collaboratore di Bixio a Quarto, caduto nella vana difesa della bandiera, unico trofeo dei borbonici (è quella donata dalle donne di Valparaìso per la guerra del 1859; tra i 180 feriti c’è Menotti, colpito a una mano, c’è Bandi, che con cinque ferite sarà quasi dato per morto, resterà indietro per essere curato, e potrà riprendere il suo posto a Palermo. Si devono aggiungere una decina di morti e una quarantina di feriti tra i picciotti.
I borbonici (hanno avuto poco più di 30 morti e 150 feriti) rientrano a Calatafimi. Landi decide di abbandonare la posizione. Da Palermo ha avuto l’ordine di rientrare, ed è spaventato dalla partecipazione popolare. Essa, in realtà, nello scontro è stata assai ridotta, ma numerose bande si sono addensate nei dintorni del campo di battaglia. “Soccorso, pronto soccorso – scrive a Palermo – […] I rivoltosi […] sbucano a migliaia da per ogni dove […] le masse di siciliani uniti alla truppa italiana sono d’immenso numero”. I depositi di farina sono stati saccheggiati; le munizioni dell’artiglieria sono quasi finite, quelle della fanteria scemate. La lettera (non arriverà, perché intercettata) denunzia la preoccupazione del generale per l’ostilità che lo circonda. La decisione è contestata dagli ufficiali. Il maggiore Sforza, convinto della morte di Garibaldi (confuso con Schiaffino, biondo come lui), vorrebbe mantenere la base nella cittadina e riprendere le operazioni. La colonna nella notte si avvia verso Palermo. Lungo il cammino è assalita dalle popolazioni in rivolta. A Valguarnera deve aprirsi la strada con le armi; a Partinico sono necessarie quattro ore di combattimento, l’impegno dell’artiglieria, l’incendio di alcune case.
I cadaveri dei caduti sono straziati dai ribelli.
La vittoria di Calatafimi – commenta Garibaldi -, benché di poca importanza per quel che riguarda gli acquisti, avendo noi conquistato un cannone, pochi fucili e pochi prigionieri, fu d’un risultato immenso per l’effetto morale, incoraggiando le popolazioni, e demoralizzando l’esercito nemico. La vittoria di Calatafimi fu incontestabilmente decisiva per la brillante campagna del ’60. In effetti è una svolta. I borbonici, padroni dell’isola, si mettono sulla difensiva. Tra le loro truppe si diffonde la leggenda dell’invulnerabilità di Garibaldi, nei comandi prevale lo scoramento. I “filibustieri”, come li ha definiti il “Giornale del Regno delle Due Sicilie”, ora fanno paura.
Francesco II non può contare su collaboratori validi. Il padre, per un malinteso senso dell’economia, ha lasciato invecchiare i quadri in tutti rami dell’amministrazione. Tra i militari, non ha mandato in pensione gli ufficiali anziani. Landi ha sessantasette anni, il generale Ferdinando Lanza, siciliano, che il 16 subentra al Castelcicala come luogotenente e ha in Sicilia il comando supremo delle forze armate, ne ha settantatre. Per di più l’esercito non ha esperienza di guerra. Gli uomini che formano il nerbo dei Mille hanno affrontato i francesi nel 1849 e gli austriaci nel 1848 e nel 1859, due dei più forti eserciti del mondo. Le truppe napoletane hanno all’attivo la breve e ingloriosa campagna del 1849 contro la repubblica romana; la monarchia le ha impiegate contro gli insorti calabresi nel 1848 e contro i siciliani nel 1849, e le ha utilizzate in compiti di polizia, contro i briganti. Si troveranno a disagio contro un avversario determinato, che fa dell’aggressione l’arma vincente.
A Garibaldi, non pressato dal nemico, tocca prendere l’iniziativa: conviene fortificarsi nell’interno, chiamando a raccolta le bande degli insorti, o avanzare sulla capitale dell’isola, sfidando i borbonici dove sono più forti? Opta per la seconda soluzione.
Da Marsala si è messo in comunicazione con Rosolino Pilo, che sta con le sue bande non lontano da Palermo; dopo Calatafimi manda La Masa a raccogliere altre bande. Il 17 lascia Calatafimi e raggiunge Alcamo, il 18 è a Partinico (dove per la seconda volta è distribuita la paga di 85 centesimi), il 19 dal passo di Renda vede Palermo e il mare, a soli 15 chilometri.
La città è presidiata da 21.000 uomini, Garibaldi ha i Mille (ora 900), in qualche modo organizzati come truppa regolare, qualche migliaio di insorti, e fa affidamento sulla popolazione di Palermo, presumibilmente pronta a ribellarsi. La sproporzione è notevole. Garibaldi conta su Pilo, ormai a pochi chilometri. Ma il 21 una colonna borbonica comandata dal colonnello svizzero Luca Von Mechel attacca il concentramento d’insorti, lo sbaraglia: Pilo è ucciso. Ricordiamo che dal 1826 la monarchia ha avuto al suo servizio 4 reggimenti di mercenari svizzeri, sciolti nel 1859, e ha ancora mercenari austriaci e bavaresi di rincalzo alle truppe napoletane.
Garibaldi aveva deciso di unirsi a Pilo nell’attacco a Monreale. Cambiata la situazione, non può più tentare di scendere su Palermo per la via diretta. Con una manovra che gli abbiamo visto realizzare spesso, di notte porta i suoi sulla strada di Greci attraverso difficili sentieri di montagna, con un tempo d’inferno. I suoi camminano tra fango e dirupi per l’intera notte, devono passare a guado un torrente ingrossato dalla pioggia; con mezzi ingegnosi sono trasportati cannoni e affusti. Il 22 si consolida su un picco montano, il Cozzo di Crasto, mentre nel vicino villaggio del Parco i volontari, “laceri, bagnati, infangati”, lavano e asciugano i panni, e ne sono riforniti dagli abitanti. Garibaldi spera che il nemico lo attacchi frontalmente. Invece i borbonici sviluppano una manovra avvolgente a largo raggio, che lo induce a ritirarsi a Piana dei Greci, dopo aver contenuto faticosamente la loro azione. Il momento è delicato. Sembra che i volontari debbano rifugiarsi nelle zone interne dell’isola. Per fortuna i borbonici non sfruttano la congiuntura favorevole, e indugiano a sferrare l’assalto decisivo, mentre agli insorti arrivano rinforzi, denaro e viveri.
Il guerrigliero mette in atto un piano abilissimo. Il 24, sul far della sera, fa partire per Corleone una colonna formata da una quarantina di carri con i bagagli, i feriti, i 5 cannoni con una cinquantina di artiglieri, e circa 150 picciotti, affidati al colonnello Vincenzo Orsini, siciliano dei Mille, comandante dell’artiglieria. A tutti, e quindi anche agli informatori borbonici, appare evidente che intende ritirarsi nell’interno. Di notte si avvia per la stessa direzione con tutti gli altri: ma al primo bivio cambia strada, scende per vie secondarie verso la costa, in modo da avvicinarsi a Palermo con un ampio giro. Vede splendere le stelle. Ne trae felice auspicio. Ancora una volta gli uomini da lui guidati si sottopongono a marce massacranti. La sera del 25 maggio sono a Misilmeri, di nuovo a 15 chilometri da Palermo. Sono accolti bene, sono rifocillati, dormono al coperto.
Nelle stesse ore Von Mechel occupa Piana dei Greci. Si è mosso con la lentezza degli eserciti regolari, la stessa lentezza che nel 1849 a Velletri ha causato la polemica tra Rosselli e il suo impaziente subordinato. Procede meno velocemente di quanto potrebbe perche, consapevole dell’ostilità delle popolazioni, non si arrischia a distaccare esploratori e pattuglie isolate. Apprende che Garibaldi è in marcia per Corleone; si mette sulla stessa strada, sicuro di tallonare i Mille. Il 26 Lanza telegrafa a Napoli che “la banda di Garibaldi, in rotta, si ritira disordinatamente pel distretto di Corleone”, e fa affiggere manifesti per comunicare la notizia alla popolazione. Il 27 Von Mechel occupa Corleone, raggiunge e sconfigge Orsini, che riesce ancora a ritirarsi, attirandolo nell’interno. Il 28, a Giuliana, un messaggero gli porta la notizia che Garibaldi è entrato in Palermo. Solo allora si accorge di essere stato giocato, e di aver allontanato dalla capitale 3000 soldati scelti.
All’alba del 26 a Misilmeri Garibaldi ha tenuto consiglio di guerra. La sproporzione tra le forze è schiacciante. I Mille sono ridotti a 750: hanno con loro da qualche giorno alcune centinaia di picciotti, e sono stati raggiunti dalle squadre formate da La Masa, circa 2000 uomini. Sulle colline non lontane da Palermo ci sono i resti delle bande di Pilo, raccolte da Giovanni Corrao. Forse sarebbe saggio allontanarsi dalla costa. Prevale l’opinione di andare avanti.
La vera posizione degli attaccanti, ignorata dai borbonici, che li credono sulla via di Corleone (da Palermo si vedono solo le squadre di La Masa, non i volontari), è nota ai ribelli e agli osservatori stranieri. La rada di Palermo è affollata da nove legni da guerra napoletani e un centinaio di mercantili. Tra essi hanno gettato l’ancora due navi da guerra piemontesi (il nuovo regno di Vittorio Emanuele non ha preso ancora una denominazione rispondente al mutato assetto territoriale), tre inglesi e tre francesi, due austriache, una statunitense e una spagnola, per tutelare gli interessi dei propri sudditi, come è avvenuto un quinquennio prima nel Rio de la Plata. La personalità di Garibaldi affascina in particolare gli inglesi. In Inghilterra questo avventuroso e romantico leader attira le simpatie in tutti i ceti. Già prima del suo ingresso in Palermo si formano comitati e si aprono sottoscrizioni per raccogliere fondi in suo favore.
A incontrare l’Eroe va un gruppo di ufficiali di marina, tre inglesi e due americani, in carrozze diverse, e l’ungherese Ferdinando Eber, corrispondente del “Times”, avvisato dal connazionale Turr. Alla spedizione, partita con tanta insolita pubblicità, l’autorevole giornale dedica quotidianamente diverse colonne. Avere informazioni sicure non è facile. Come hanno fatto gli argentini tanti anni prima, il governo napoletano accusa i Mille di marciare attraverso l’isola “minacciando i pacifici cittadini, e non risparmiando rapine, incendi e devastazioni di ogni sorta nei comuni da loro attraversati”. Sulla scorta di queste affermazioni calunniose i corrispondenti da Roma e da Napoli dei giornali reazionari stranieri denunziano incredibili atrocità. Il “Journal de Bruxelles” il 9 giugno riferirà che una sentinella borbonica fatta prigioniera “è stata trovata, respirando ancora, inchiodata a un muro, le braccia in croce e le gambe divaricate”, e dopo la conquista di Palermo denunzierà assassini su larga scala ed episodi di cannibalismo. La tecnica di diffamare l’avversario porta a clamorosi infortuni. Dopo Calatafimi il ministero degli Esteri dirama alle capitali straniere la notizia della completa disfatta dei volontari, che avrebbero lasciato sul campo “la loro bandiera, e un gran numero di morti e feriti, tra i quali uno dei loro capi”.
Anche se in un secondo momento il trionfalismo dei borbonici viene attenuato, la diffidenza sulla genuinità delle loro informazioni è giustificata. I corrispondenti stranieri cercano notizie dirette. La descrizione di un incontro con Garibaldi nel suo campo è pubblicata il 24 dal “New York Herald”, ed Eber manda a Londra un servizio sull’accampamento di Misilmeri. Non sfugge alla ricerca del colore a cui ci hanno abituati gli osservatori degli accampamenti garibaldini. Dipinge il pittoresco disordine con cui gli uomini si stringono “attorno a una pentola fumante, con dentro un gran pezzo di manzo, a un sacco di cipolle, un cesto stracolmo di pane fresco, e un barilotto di marsala”. Si sofferma sulla spetto trasandato dei volontari, reduci da marce e contromarce, combattimenti, pioggia, bivacchi di fortuna. Sottolinea la serenità dell’Eroe, sicuro della vittoria.
Gli stranieri andati incontro a Garibaldi partecipano alla simpatia per i protagonisti della incredibile impresa. Danno informazioni preziose. Il comando borbonico, attendendo l’attacco sulla strada Monreale, ha schierato il grosso delle truppe nei quartieri a nord e a ovest; ha lasciato sguarnito il lato sud-est, da dove si stanno avvicinando i garibaldini, col tessuto di viuzze strette del quartiere popolare della Fieravecchia. Garibaldi può agire di sorpresa. La città è circondata da bastioni, in cui si aprono dodici porte. Decide di fare irruzione dalla Porta Termini, percorrendo non la via principale, che corre lungo il mare, ma una strada interna, per il passo di Gibilrossa. I picciotti chiedono di stare alla testa degli attaccanti. Sono armati con armi di fortuna e sono ricchi più di entusiasmo che di esperienza, ma il Nizzardo non può rifiutare senza offenderli: li appoggia con 30 volontari scelti.
La colonna si muove la sera del 26, secondo la consolidata tattica di Garibaldi di cogliere il nemico di notte. Sui monti vicini sono accesi dei fuochi, per far credere che le squadre bivaccano nell’accampamento. Si procede nel massimo silenzio, per un sentiero impervio. La sorpresa non riesce in pieno. Alla periferia di Palermo, per l’imperizia dei picciotti, che, tra l’altro gridano e sparano in aria in segno di gioia, il modesto presidio borbonico si allarma e reagisce. Al ponte dell’Ammiraglio l’avanguardia si arresta. Sopravviene il grosso, con Garibaldi in testa che brandisce la spada. Gli attaccanti caricano alla baionetta. Raggiungono Porta Termini. Qui la difesa è accanita. I borbonici sono sostenuti dal fuoco di due cannoni e da quello di una nave da guerra. Cade l’ungherese Luigi Tukory, sono feriti gravemente Benedetto Cairoli e Giacinto Carini, leggermente Bixio. Una barricata sbarra il cammino. Sopraggiunge Garibaldi, a cavallo; incoraggia i suoi. La barricata è sfondata. Gli assalitori avanzano sotto il fuoco, con gravi perdite e momenti di sbandamento dei picciotti, male armati. Infine i difensori cedono. Alle sei del mattino del 27 (è la domenica di Pentecoste) i garibaldini raggiungono la piazza della Fieravecchia, e si diramano nei vari quartieri.
Palermo conta 160.000 abitanti. La popolazione, disarmata nei mesi precedenti dalla polizia, in un primo momento resta chiusa nelle case. Un po’ alla volta, al suono delle campane, scende nelle strade, armata alla buona; la folla si addensa, innalza barricate. Dalle finestre e dai balconi i soldati borbonici son bersagliati con proiettili improvvisati.
Lanza è costretto a capovolgere la disposizione delle truppe, dislocate alla periferia per affrontare un attacco dall’esterno. Ormai il nemico è all’interno della città. Garibaldi cerca di coordinare l’azione, che si frammenta in centinaia di episodi, nelle vie, nelle piazze, nei palazzi. Mette il quartier generale a piazza Bologni (e dorme serenamente a terra per due ore), poi nella sede del municipio, in piazza Pretoria.
La lotta arde per tre giorni. Né gli attaccanti, né i difensori sono in grado di sviluppare un piano, i borbonici cercano di mantenere il possesso delle caserme e degli uffici pubblici, e bombardano la città dal forte di Castellammare e dalle navi, provocando gravi danni, terribili incendi e molte vittime tra i civili; i garibaldini e gli insorti combattono strada per strada, innalzando barricate nei punti strategici, si impadroniscono progressivamente dell’abitato, animati dal suono incessante delle campane, fanno riaprire i negozi, ricevono il cibo dalle cucine dei conventi.non mancano episodi di ferocia: i soldati saccheggiano e fanno violenze sui fuggiaschi inermi, i ribelli cercano i poliziotti al servizio dell’oppressore per ucciderli. Il 28 maggio fuggono 2000 detenuti dal carcere della Vicaria, in parte politici che accorrono sulle barricate, in maggioranza pericolosi criminali: Garibaldi decreta la pena di morte per i colpevoli di furti, saccheggio, violenze. Alle due parti arrivano rinforzi: per gli insorti le bande di Corrao, per i regi due battaglioni di mercenari esteri, mandati da Napoli. Lanza raccoglie le truppe intorno al Palazzo Reale. Nella zona circostante si svolgono attacchi e contrattacchi, con alterna fortuna. Nel pomeriggio del 29 i borbonici sferrano un pericoloso contrattacco. Interviene Garibaldi in persona. Fino allora è stato nella piazza Pretoria per dirigere le operazioni; ora accorre a cavallo, si lancia nel vivo della mischia, sembra invulnerabile, trascina i suoi alla riconquista delle posizioni perdute.
I contendenti sono allo stremo. Ai borbonici scarseggiano i viveri, non sono in grado di seppellire i morti e ricoverare i feriti, perché l’ospedale militare è nelle mani degli assalitori; agli insorti stanno per mancare le munizioni. Lanza si piega per primo. La mattina del 30 scrive a Garibaldi, lo invita a un incontro sulla nave inglese Hannibal, comandata dall’ammiraglio George Mundy. “Il capodei Mille, trattato da filibustiere fino a quel punto, divenne a un tratto Eccellenza”, osserverà l’Eroe. L’offerta di Lanza giunge propizia, in un momento critico per gli attaccanti. Garibaldi aderisce subito. Si concorda la cessione immediata del fuoco, con una tregua a partire da mezzogiorno, seguita dall’incontro tra le due parti. Ironia della sorte! Proprio poco dopo mezzogiorno arriva Von Mechel coi suoi quattro battaglioni, entra in città da Porta Termini superando la debole resistenza dei picciotti, si spinge verso la Fieravecchia, si scontra con uomini raccolti da Sirtori e Carini, che restano feriti… quando due ufficiali napoletani lo informano dell’armistizio e gli comunicano l’ordine di Lanza di interrompere le ostilità. A parziale soddisfazione, ottiene di restare dove si trova, nel cuore dell’abitato, in attesa delle sito delle trattative. Sarà presto circondato e ingabbiato da barricate.
Il generale Giuseppe Letizia, in rappresentanza di Lanza, e Garibaldi, in divisa di generale piemontese s’incontrano sulla lancia che li porta alla nave. Le trattative si svolgono alla presenza dei comandanti francese, americano e piemontese; Mundy non ha invitato gli austriaci, perché in precedenza si son rifiutati di sottoscrivere la richiesta di evitare il bombardamento della città. La discussione è animata. Il generale borbonico vorrebbe evitare trattative e imporre le sue condizioni con l’intermediazione di Mundy. Questi si rifiuta di prestarsi a un compito del genere. Letizia si piega alla discussione. Garibaldi acconsente al passaggio di vettovaglie e all’assistenza dei feriti avversari, non ammette che i palermitani siano invitati a mandare una petizione di sottomissione al Borbone. L’armistizio è prolungato fino alle diciotto del giorno dopo. A sera l’Eroe parla al popolo dal balcone del Palazzo Pretorio, lo infiamma, ottiene l’impegno alla lotta. Balconi e finestre sono illuminati. Si moltiplicano e si rinforzano le barricate, si lavora alla fabbricazione di polvere da sparo e cartucce. La determinazione degli insorti impressiona i generali borbonici.
Il 31 il generale Letizia torna a parlamentare con Garibaldi, nel suo quartier generale, arredato alla buona. Bandi, presente nelle funzioni di aiutante di campo, descrive la scena. L’Eroe, sereno come sempre, sta seduto su una poltrona, con una sedia davanti che funge da tavolino; ascolta sbucciando un’arancia con un pugna letto. Ne porge uno spicchio sulla punta del pugnale al generale e al colonnello Buonopane, che lo accompagna. Mentre i tre mangiano l’arancia si discute delle condizioni. Bandi non si è allontanato perché gli informatori (i servizi segreti dell’epoca) hanno fatto sapere che i borbonici progettano di assassinare il Dittatore.
A questo scopo avrebbe fatto giungere a Palermo un caporale di marina, e il brigante calabrese Giosafatte Talarico, graziato nel 1845 da Ferdinando II, che, però, rinunzieranno al progetto, conquistati dal fascino del guerriero.
L’armistizio è prolungato per tre giorni. La convenzione è controfirmata da Crispi, “segretario di Stato del governo provvisorio di Sicilia”: per gli insorti è un grosso riconoscimento. Garibaldi ottiene il controllo del palazzo della Zecca, venendo in possesso di una grossa somma, e riesce a far provvista di polvere. Nel pomeriggio gira per la città, in un delirio di popolo. Arrivano dai paesi vicini pane e farina. La posizione degli attaccanti migliora. Lanza si consulta con Napoli senza ricevere direttive precise. Il terribile bombardamento non ha dato i frutti sperati: non è possibile riprenderlo, senza incorrere nell’indignazione dell’opinione pubblica europea. Il colonnello Buonopane nello scortare i feriti ha avvertito la determinazione dei palermitani. La città è una rete di barricate, i ribelli sono animati dall’odio per i napoletani, costretti dalla rivolta popolare ad abbandonare la città nel 1820 e nel i848. Lanza, scoraggiato, il 6 giugno accetta la capitolazione. Il giorno dopo s’imbarcano i primi contingenti. Entro il 19 tutta la guarnigione lascerà Palermo.
NOTA: I testi sono tratti dal libro di Alfonso Scirocco “Giuseppe Garibaldi”, finito di stampare nel Novembre 2005. (Riproduzione riservata).
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