Storie di Sicilia
IERI. CANTI POPOLARI: SANTALUCIOTE, CARRITTERA E STURNELLA. OGGI INVECE…
CANZUNI E STORII – Oltre al modello melodico della quartina, i cantori di un tempo avevano nel loro repertorio altri stili vocali provenienti da località o aree vicine, con cui di solito intonavano sestine e ottave di endecasillabi. Si cantava à liminòta, à baccillunìsa, à calabrìsa, à italiòta e santaluciòta, (al modi di Barcellona, alla calabrese, al modo di Itala e di Santa Lucia). Era prassi alternare i modelli melodici passando da uno all’altro nello stesso canto, procedimento indicato con l’espressione di vutàri à vuci. Questi stili di canto intonano testi di genere lirico, (sono infatti in endecasillabi e di contenuto non narrativo).
I brani à santaluciòta, al modo di Santa Lucia del Mela, località della provincia di Messina sita sulla costa tirrenica, sono presenti in molte tradizioni musicali del Messinese. I cantori fiumedinisani erano in passato in assiduo contatto con i santaluciòti (gli abitanti di Santa Lucia), in quanto i due paesi, sebbene ubicati su due versanti opposti, quello ionico e quello tirrenico, sono collegati da strade mulattiere che si snodano lungo i Monti Peloritani.
Il canto viene intonato in genere da due solisti (un uomo e una donna), che si alternano. Il primo cantore intona il distico di base e il secondo la rielaborazione del distico stesso. La strutturazione di ciascuna strofa prevede, dopo l’intonazione del distico, una duplice intonazione della seconda parte del secondo endecasillabo, seguita dal canto dell’endecasillabo per intero; si tratta di una forma di rielaborazione del testo recitato tra le più diffuse in Italia Meridionale.
Vegnu a cantari a li vostri facciati / straneri sugnu e non mi can usciti.
Na sula cosa vògghiu e màt’a ddari / dda picciuttedda chi gghintra tiniti.
Cu doti e senza doti mi la dati / uomu non sugnu chi vi iammu liti.
Si sàcciu e sentu chi nautru ci a dati / iò mi la fùiu mentri chi dummiti.
Si dopu a la pritura mi purtati / spisi pagati e me’ soggira siti.
Vengo a cantare alle vostre facciate /straniero sono e non mi conoscete / Una sola cosa voglio e mi dovete dare / quella giovinetta che dentro tenete / Con dote o senza dote me la date / uomo non sono che faccio liti / Se so e sento che ad un altro la date / io la rapisco mentre dormite / Se poi alla pretura mi portate / spese pagherete e mia suocera sarete.
I canti popolari di un tempo raccontavano la storia vera dell’epoca, ma andiamo al contesto del canto in oggetto: in questo caso trattasi di un forestiero – piuttosto deciso e dalle idee chiare, potremmo affermare – il quale, rivolgendosi alla futura suocera chiede la mano della figlia tenuta in casa. Il giovinotto fa presente che non ci tiene alla dote, ma soprattutto che è pronto alla “fuitina”. Fuggire, un tempo era pratica molto diffusa fra i ceti poveri, quando si voleva evitare il matrimonio con le relative spese. Spese, che né l’una né l’altra famiglia erano in grado di affrontare.
Se pensiamo poi alla futura sposa, notiamo come essa (sempre nel caso in esame), fosse tenuta in casa, preservata da cattive tentazioni. Si racconta, come i due fidanzati, spesso si conoscessero solo di vista e, anche dopo che il pretendente si era presentato in casa di lei, ad ogni incontro i due erano sorvegliati a vista dai genitori della ragazza. Certo, non erano liberi di andarsene da soli a cenare fuori, a vedere un film al cinema, ad andare… in discoteca come si fa oggi. Si organizzavano delle circostanziate feste in casa, feste dove si ballavano i balli popolari fra amici conosciuti e… vigilati. Per farla breve, se non qualche carezza e qualche bacetto rubato di nascosto, l’atto sessuale era assolutamente da consumarsi dopo il matrimonio e non prima. Vergine doveva essere lei, perché se no “fimmina disonorata era”, e nessuno la voleva più.
Ma veniamo ai giorni d’oggi. C’è chi afferma che le cose sono (troppo) cambiate. E non solo per gli sms che hanno preso il posto delle vibranti lettere d’amore di un tempo. Tanto per evitare la disamina polemica e noiosa, ci limiteremo all’elencare i vari possibili modi di comportarsi di lui nei confronti di lei. Modi “e frasi”, dettati da carattere del pretendente cucador, ma anche di obbiettivi preconcetti. Dal genere romantico al macho, esistono uomini tutti di un pezzo e giovani impacciati, i fragili, quelli dalla voce tonante e i balbuzienti, i conquistatori e quelli che arrossiscono. Si può essere ridanciani, (tipo. “Sai le risate che ci faremo noi due!), o perfettamente sinceri. Si può essere molto espliciti sulla finalità sessuale dell’impresa o parlare della cosa per allusioni discrete. Possono fare centro sia frasi in gergo giovanile sia quelle vecchie come il cucco, o altre di una banalità patetica. Il cafone non ha meno chances del gentleman, il tipo inquietante e nevrotico può riuscire altrettanto bene di quello gentile e sempre a suo agio con se stesso. Una certa frase maschilista produce tutto un altro effetto se pronunciata sottotono. Un’altra preoccupata e febbrile diventa buffa, se proferita con esagerazione, così come i complimenti profondamente sciocchi possono trasformarsi, per magia di un’intonazione o di uno sguardo, in esilaranti o torridi. È tutta una questione di circostanze e di feeling.
“Scusa se mi avvicino, ma sono un regista e muoio dalla voglia di vederti in primo piano”;
“La vedi quella bella donna con l’espressione raggiante? E quell’altra laggiù che sprizza felicità da tutti pori? Sono due mie ex”;
“Sento che sotto la sua aria austera si nasconde un temperamento di fuoco: lei capita a proposito, possiedo l’idrante giusto per spegnerlo”;
(in palestra) “Posso aiutarti a portare i pesi?”;
“Sei veramente così al naturale? Niente silicone, niente trapianti?”;
“Se ti dico che sei carina tu penserai che ti voglio abbordare. Be’, è la pura verità”.
NOTA: Testi tratti da “Il canto della Vara e le tradizioni musicali di Fiumedinisi” di Grazia Magazzù, pubblicato nel 2007 e dal libro “IL CUCADOR” quando rimorchiare diventa un’arte.
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