Storie di Sicilia
IL REGNO D’ITALIA (1861 – 1865). RISENTIMENTO POPOLARE E BRIGANTAGGIO
POVINCE E PREFETTI – Dopo la morte del Cavour, alla direzione dello stato italiano fu chiamato il conte toscano Bettino Ricasoli: un nobile aperto alle esigenze del liberalismo e ben visto anche dalla Sinistra. Già con questo primo ministero si cercò subito di dare al paese un’organizzazione amministrativa fortemente accentrata; il Regno venne pertanto suddiviso in province, amministrate da prefetti che rappresentavano il potere centrale; le province erano poi suddivise in comuni, amministrati da consigli comunali, elettivi ma presieduti da sindaci di nomina regia (1).
.
ESTENSIONE DELLO STATUTO – anziché riunire un’assemblea che elaborasse una nuova costituzione, si volle estendere a tutto il Regno il vecchio Statuto albertino, che, nella sua estrema genericità, poteva essere interpretato in senso liberale ma anche in senso reazionario; fu inoltre estesa a tutto il paese la legislazione civile e penale del Piemonte, con grave danno per quelle regioni dove, come in Toscana, la legislatura era più progredita; infine, fu imposta a tutti la coscrizione obbligatoria che suscitò molte reazioni negative perché la maggioranza della popolazione italiana non vi era abituata.
.
Questa tendenza del Piemonte a imporre la propria mentalità e le proprie consuetudini civili e militari fece sì che molti Italiani si sentissero vittime di una sopraffazione dei “Piemontesi”, e ci fu persino chi disse che l’Italia aveva subìto “l’ultima invasione barbarica”. In tal modo, mentre il Ricasoli otteneva il riconoscimento del nuovo Regno d’Italia da parte delle maggiori potenze europee e riorganizzava la marina e l’esercito, nel Mezzogiorno l’invadenza piemontese e l’applicazione di sistemi fiscali che imponevano carichi eccessivi alle miserabili popolazioni contadine del Sud contribuirono alla crescita virulenta del brigantaggio: una vecchia e trista piaga del Mezzogiorno, che però fra il ’61 e il ’65 assunse proporzioni molto più massicce e preoccupanti.
.
ARRETRATEZZA DEL SUD – L’agricoltura del Mezzogiorno, specialmente nelle zone impervie dell’interno, era molto arretrata, e le popolazioni erano vissute fino al ’60 in una sorta di isolamento culturale ed economico che aveva però un suo arcaico equilibrio; con la creazione di un mercato nazionale che si andò delineando già nel ’61, l’economia del Sud subì un trauma, provocato sia dall’abolizione delle protezioni doganali borboniche, che permise l’afflusso di beni di consumo prodotti dall’industria capitalistica europea, sia dall’inasprimento delle imposte, che divennero per i contadini un carico insopportabile. Anche le piccole attività manifatturiere della famiglia contadina del Mezzogiorno vengono rapidamente liquidate dalla concorrenza di manufatti di origine industriale; la stessa cosa, resto, accadde anche al Nord, dove però la mano d’opera rurale viene riassorbita dalla nascente industria, mentre, come scrive lo storico Emilio Sereni, “il Sud soggiace ad un processo di vera e propria agrarizzazione, e la massa di lavoro che le popolazioni contadine impiegavano in altri tempi nelle lavorazioni industriali resta inutilizzata”.
.
Tra le molteplici di disagio e scontentezza dei contadini del Sud incisero pesantemente l’imposta sul macinato (2), che gravava in modo drammatico sull’economia familiare, e il problema della distribuzione delle terre demaniali, cioè appartenenti allo stato. Secondo le promesse e le intenzioni dei politici, queste terre, divise in piccoli lotti, dovevano essere vendute ai contadini poveri, ma in realtà lo stato, bisognoso di denaro, non potendo differire a lungo la riscossione dei pagamenti rateali, preferì vendere a chi poteva versare subito il denaro, e quindi le terre demaniali finirono con l’essere acquistate dai già ricchi proprietari terrieri, che in tal modo aumentarono il loro potere economico e politico (3).
.
BRIGANTAGGIO – Contro questa situazione la rivolta contadina esplose violenta tra il 1861 e il 1865, e si concretò in una sorta di guerriglia condotta da bande di “briganti”, che peraltro non può essere ridotta a fatto puramente criminale: il brigantaggio fu infatti una specie di lotta, confusa, anarcoide e spesso efferata, contro i “galantuomini liberali” che avevano monopolizzato il potere. Il grave fenomeno, alimentato da un’infinita miseria e dalla sfiducia nel nuovo stato, coinvolse contadini, galeotti fuggiti dal carcere, ex soldati borbonici sbandati; anche molti di coloro che rimasero estranei alla rivolta seguirono con simpatia questa vicenda di miserabili diseredati, impegnati in una lotta impari contro i proprietari terrieri, alleati con la borghesia del Nord.
.
Il brigantaggio trovò un aiuto potente nell’appoggio dei Borboni, rifugiatisi a Roma, sotto la protezione pontificia dopo la disfatta del ’60-’61; l’ex re Francesco II fornì sistematicamente danaro e uomini, nel tentativo di trasformare le bande di briganti in un vero esercito legittimista, che avrebbe potuto riportarlo sul trono di Napoli, grazie anche alla collaborazione indiretta di parte della popolazione, ancora non del tutto convinta della irreversibilità del processo unitario.
.
REPRESSIONE MILITARE – Dal canto suo il governo italiano considerò il brigantaggio solo come una minaccia all’unità del paese, di cui erano responsabili i Borboni e il papa, e di conseguenza lo affrontò esclusivamente con mezzi militari, impegnando nella repressione quasi la metà dell’esercito (150.000 uomini), 7.000 carabinieri e migliaia di guardie nazionali. Si sviluppò e si protrasse così una guerriglia atroce che conobbe episodi di efferatezza da una parte e dall’altra e che si concluse con 7.000 caduti in combattimento, 2.000 fucilazioni e 20.000 condanne ai lavori forzati o al confino. La repressione militare fece del Mezzogiorno una sorta di terra di conquista, presieduta in ogni villaggio da reparti permanenti e rastrellata capillarmente da reparti mobili che inseguivano, circondavano e distruggevano le bande armate.
.
RELAZIONE SUL BRIGANTAGGIO – L’operazione poteva dirsi conclusa nel 1865, ma già nel ’63 una commissione parlamentare d’inchiesta sul brigantaggio aveva individuato le vere cause del disagio rurale, come può rilevarsi dalle considerazioni conclusive della relazione da essa elaborata: “Dove il sistema delle mezzerie è in vigore, il numero dei proprietari è scarso, ma dove si pratica la grande coltivazione sia nell’interesse del proprietario, sia in quello del fittaiolo, il numero dei proletari è necessariamente copioso… Grande cultura: nessuno colono: e molta gente che non sa come fare per lucrarsi la vita… La vita del brigante abbonda di attrattive per il povero contadino, il quale ponendola a confronto con la vita stentata e misera che egli è condannato a menare, non inferisce di certo dal paragone conseguenze propizie all’ordine sociale. Il brigantaggio diventa in tal guisa la protesta selvaggia e brutale della miseria contro antiche e secolari ingiustizie… La sola miseria non sortirebbe forse effetti cotanto perniciosi se non fosse congiunta ad altri mali che la infausta signoria dei Borboni creò ed ha lasciati nelle province napoletane. Questi mali sono l’ignoranza gelosamente conservata ed ampliata, la superstizione diffusa ed accreditata, e segnatamente la mancanza assoluta di fede nelle leggi e nella giustizia…”.
.
QUSTIONE MERIDIONALE – La cosiddetta “questione meridionale” sarà però oggetto di esame analitico e accurato solo dopo il 1870, quando studiosi del valore di Franchetti, Sonnino e Giustino Fortunato indagheranno a fondo il problema e riusciranno a coglierne l’essenza nello stato di disperazione delle masse rurali, esposte all’arbitrio dei proprietari terrieri.
.
“Il Sonnino e il Franchetti – afferma a questo proposito Antonio Gramsci – furono dei pochi borghesi intelligenti che si posero il problema meridionale come problema nazionale e tracciarono un piano di governo per la sua soluzione. Quale fu il punto di vista di Sonnino e Franchetti? La necessità di creare nell’Italia meridionale uno strato medio indipendente di carattere economico che funzionasse, come allora si diceva, da “opinione pubblica” e limitasse i crudeli arbitri dei proprietari da una parte e moderasse l’insurrezionismo dei contadini poveri… il piano governativo di Sonnino e Franchetti non ebbe mai neanche l’inizio di un’attuazione. E non poteva averlo. Il nodo di rapporti tra Settentrione e Mezzogiorno nell’organizzazione dell’economia nazionale dello Stato, è tale per cui la nascita di una classe media diffusa di natura economica (ciò che significa poi la nascita di una borghesia capitalistica diffusa) è resa quasi impossibile. Ogni accumulazione di capitali sul luogo e ogni accumulazione di risparmi è resa impossibile dal sistema fiscale e doganale e dal fatto che i capitalisti proprietari di aziende non trasformano sul posto il profitto in nuovo capitale perché non sono del posto”.
.
(1) Più tardi, quando lo Statuto albertino fu interpretato con maggior larghezza, anche i sindaci vennero liberamente scelti dai consigli comunali.
.
(2) L’imposta sul macinato veniva calcolata mediante un contatore, applicato ai mulini, che registrava la quantità di grano macinato. I proprietari dei mulini versavano poi allo stato somme proporzionali a tale quantità. Naturalmente, però, essi si rifacevano aumentando il prezzo della farina, e i fornai, a loro volta, aumentavano il prezzo del pane. In ogni caso l’imposta sul macinato veniva dunque pagata soprattutto dalle classi popolari, grandi consumatori di pane. Le imposte indirette (cioè le imposte che appunto non gravano direttamente sui redditi ma sui consumi) determinano molto spesso risultati iniqui, come quello era esemplificato. Già nota ai contadini meridionali durante il dominio borbonico, l’imposta vsul macinato fu abolita dopo la proclamazione dell’unità nazionale, quasi a significare che il nuovo regno si apprestava a risolvere i problemi della miseria delle plebi; ma fu ben presto rimessa in vigore, dato che essa poteva procurare, senza tema di evasioni, un gettito di un centinaio di milioni all’anno (corrispondenti all’incirca a 400 miliardi di lire 1986; una cifra quasi trascurabile per i bilanci statali dei nostri giorni, ma alquanto significativa nell’800). L’applicazione dell’imposta sul macinato provocò diffuse rivolte, che in poche settimane causarono 250 morti.
.
(3) Le intenzioni dei governanti erano oneste; essi infatti volevano che le terre coltivabili, divise in piccoli lotti, finissero in mano ai contadini. Ma poi sulle buone intenzioni sociali e politiche prevalsero le preoccupazioni di ordine strettamente finanziario e la terra finì quindi nelle mani di coloro che già avevano capitali liquidi a disposizione e potevano quindi pagare subito. Né i contadini potevano acquistare i lotti ricorrendo ai mutui, dato che i privati danarosi e gli enti bancari preferivano impiegare il denaro nel diretto acquisto dei terreni messi all’asta, anziché prestarli. La formazione delle grandi ed efficienti proprietà borghesi che si insediarono sui terreni già appartenenti alla Chiesa daneggiò le masse rurali, che fino allora avevano potuto esercitare sulle terre della Chiesa quasi gratuitamente o per piccoli canoni il diritto di pascolo e di raccolta di legna da ardere, e che adesso si videro respinti dai nuovi proprietari, assai poco disposti ad assumersi le funaioni di beneficenza, svolte nel passato dalla Chiesa.
.
NOTA: I testi sono tratti dal libro per la scuola: “DALLE RIVOLUZIONI DEL SETTECENTO ALLE RIFORME DELL’OTTOCENTO” XVIII-XIX SECOLO, edito da Zanichelli, pubblicato nel 1997.
Invia un Commento