Storie di Sicilia
LE RIFORME NEL REGNO DI NAPOLI E IN SICILIA (1734 – 1790)
Il Regno di Napoli e di Sicilia fu governato dal 1734 al 1759 da Carlo di Borbone che ebbe come principale ministro il toscano Bernardo Tanucci. Divenuto Carlo re di Spagna, salì al trono di Napoli il suo secondogenito Ferdinando IV, che aveva solo otto anni, sicchè il Regno fu governato da un consiglio di reggenza diretto praticamente da Tanucci. Si accentuò in questo periodo la politica riformatrice già iniziata durante il regno di Carlo. Nel 1768 Ferdinando IV sposò Maria Carolina d’Austria, intelligente ed astuta, che riuscì ad influire in misura crescente sulla politica napoletana ed ottenne dal marito, debole e pigro, il licenziamento del Tanucci nel 1776. Da quel momento il Regno fu governato dalla regina e dai suoi favoriti, tra i quali emerse John Acton, di origine inglese, ministro della Marina e poi primo ministro. Per volontà di Maria Carolina, sorella dei sovrani illuminati Giuseppe II e Pietro Leopoldo, la politica riformatrice divenne più energica fino al 1792, quando, spaventata dagli sviluppi della Rivoluzione francese, la regina assunse un atteggiamento reazionario che poi accentuò negli anni successivi.
LA STRUTTURA FEUDALE DEL REGNO DI NAPOLI
Nel momento in cui la dinastia borbonica si insediò, il Regno di Napoli aveva una struttura ancora essenzialmente feudale. La maggior parte dei comuni erano soggetti alla giurisdizione dei baroni, i quali godevano di privilegi di ogni genere. Ai baroni appartenevano, sia a titolo privato sia a titolo feudale, vastissime proprietà, ed enormi erano anche le proprietà ecclesiastiche. Oltremodo grave era la miseria dei contadini, i quali, privi di terre proprie oppure possessori di piccolissimi appezzamenti, per vivere dovevano lavorare come braccianti nelle terre baronali ed ecclesiastiche. Molto arretrata tecnicamente era l’agricoltura, salvo che in ristrette zone costiere; poche e pessime le strade e quindi difficile il traffico tra le varie province. Questa società non era però statica: in tutte le province erano in corso aspre lotte degli abitanti delle terre infeudate contro gli abusi dei baroni. D’altra parte molte famiglie nobili, che vivevano a Napoli, si erano indebitate facendo una vita troppo dispendiosa e cercavano quindi di accrescere i loro redditi, sia imponendo nuovi pesi feudali, sia impadronendosi delle terre dei comuni (demani comunali), sulle quali i contadini godevano dei cosiddetti usi civici (diritti di pascolo, semina, legnatico, ecc.). attraverso queste lotte si era formata una borghesia provinciale composta in parte da funzionari baronali e in parte da contadini che erano riusciti a migliorare le loro condizioni; ma era ancora troppo debole economicamente per promuovere una profonda trasformazione sociale. Scarsa era d’altronde la borghesia commerciale delle città, quasi tutte piccole e poco attive. Enorme era lo squilibrio tra le città di provincia e Napoli, che era divenuta durante il dominio spagnolo una delle maggiori città d’Europa e tale restava ancora nel Settecento. Essa però non aveva uno sviluppo commerciale ed industriale adeguato alla sua popolazione, che si componeva in larga misura da masse poverissime costrette a vivere d’espedienti. A Napoli risiedeva la maggior parte della nobiltà e si concentrava la vita amministrativa, giudiziaria e culturale del Regno.
LA CULTURA ILLUMINISTICA A NAPOLI
Questo fatto agevolò la formazione a Napoli di un centro molto vivace di cultura illuministica. Già sul finire del Seicento e nei primi decenni del Settecento la cultura napoletana si era manifestata con due grandi personalità, il filosofo Giambattista Vico (1668 – 1744) e lo storico Pietro Giannone (1676 – 1748). Poi nel corso del Settecento, sotto l’influenza della contemporanea cultura europea e della filosofia del Vico, si sviluppò l’illuminismo napoletano, i cui maggiori rappresentanti furono Antonio Genovesi, Ferdinando Galiani, Gaetano Filangieri, Giuseppe Maria Galanti, Mario Pagano. Alcuni di questi uomini collaborarono attivamente all’opera riformatrice del governo borbonico, i cui risultati pratici furono però piuttosto limitati.
LE RIFORME DI CARLO DI BORBONE
Carlo di Borbone e il Tanucci rivolsero la loro attenzione soprattutto al campo ecclesiastico. I privilegi del clero furono limitati; vari ordini religiosi, tra i quali i gesuiti, furono soppressi e i loro beni incamerati e venduti; fu ridimensionata l’immunità fiscale dei beni del clero, abolita l’inquisizione e ridotta la giurisdizione dei tribunali ecclesiastici. Meno efficace fu la lotta contro la feudalità: le giurisdizioni feudali furono ridotte lentamente e in misura limitata. Il nuovo catasto, ordinato da Carlo di Borbone nel 1741, non fu condotto come quello lombardo con rilevamenti d’ufficio ma sulla base delle dichiarazioni dei proprietari, sicchè rimasero molti squilibri fiscali e moltissime esenzioni a favore dei baroni.
Alcuni passi avanti furono fatti dopo il licenziamento del Tanucci: nel 1790 fu stabilito che nelle vendite dei feudi fosse esclusa quella della giurisdizione (cioè del diritto di amministrazione giudiziaria); furono abolite alcune tasse feudali e venne decisa la censuazione delle terre comunali, cioè la suddivisione di esse tra gli abitanti dei comuni che avevano dei diritti di uso in cambio del pagamento di un canone annuo; ma questo provvedimento non ebbe seguito a causa dell’interruzione della politica riformatrice.
In Sicilia, dove la potenza della nobiltà feudale era ancora maggiore che nel continente, una politica riformatrice fu svolta soltanto negli anni di Maria Carolina per opera di due vicerè napoletani, il marchese Domenico Caracciolo e il principe di Caramanico. Il primo soprattutto fu molto energico. Abolì l’inquisizione, che in Sicilia godeva di particolari privilegi; soppresse la giurisdizione feudale nel campo penale; eliminò gli ultimi residui di villanaggio (così si chiamava in Sicilia la servitù della gleba); tolse ai baroni il controllo delle finanze dei comuni; stabilì che i comuni potessero riscattare i diritti e le giurisdizioni feudali. Queste riforme provocarono un’aspra resistenza della nobiltà, che riuscì di fatto ad annullarne alcune. Esse d’altra parte non modificarono profondamente la struttura sociale della Sicilia; tuttavia furono il principio di ulteriori sviluppi che si ebbero nel secolo XIX.
NOTA: I testi sono tratti dal libro per le scuole medie superiori “LA CIVILTA’ MODERNA”. Ristampa di Luglio 1990.
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