Storie di Sicilia
L’OPERA DEI PUPI. SPETTACOLO SICILIANO PER ANTONOMASIA
Un tempo, per un che si rispettasse, l’opera dei pupi era lo spettacolo per antonomasia. Annualmente arrivava dal catanese una compagnia di pupari a far rivivere le avventure dei Paladini di Francia: Orlando, Rinaldo, Cani di Maganza, (alias Gano di Magonza), Angelica, Guerrin Meschino, Bovo d’Antona, ecc…
Se ne discuteva animatamente prima, durante e dopo le rappresentazioni e non c’era nessuno che non conoscesse già le storie a memoria, puntata per puntata, per tutte le settimane di durata delle recite. Ma si aspettava lo stesso con ansia lo spettacolo, magari per criticarlo nel caso ci fossero state, nella loro realizzazione, delle discordanze dai testi cronici.
La mattina presto comparivano dei cartelloni che l’artista disegnatore del gruppo approntava per essere esposti nei saloni (dei barbieri), da don Catìnu ‘u scarparu, ecc.. insomma nei posti strategici, per raggiungere più pubblico possibile. E giù i primi commenti sui vestiti, le armature, le vicende della puntata odierna. Luogo della recita era generalmente un magazzene (1) per la lavorazione dei limoni o una strada che veniva chiusa all’occorrenza (ricordo recite in via della Verdura). Era vivamente consigliato portare da casa la sedia. Gli spettatori partecipavano intensamente; odiavano e dileggiavano il traditore Cani di Maganza, anche tirandogli contro scarpe vecchie portate da casa a quel fine, esultavano quando l’invincibile Durlindana mozzava le teste dei saraceni a decine facìa minnìtta, (2) di vil marràni, piangevano alla morte di Orlando, si atterrivano alle opere di magia e ridevano negli intervalli con le battute di Pulicani e di Pippennino, sgraziato e spesso legnato buffone.
Si raccona di un puparo, mastru Giuvanni, che, facendo alla fine della serata l’anticipazione sulle rappresentazioni del giorno dopo, annunciasse come Orlando con un solo colpo di Durlindana (3) avrebbe ammazzato decine e decine di Saraceni. Al suo annuncio seguì un coro di – “scalamula mastru Giuvanni!!!” che lo fece molto arrabbiare: il motto ancora oggi da noi serve come ammonimento a chi le racconta grosse.
Di Pippennino invece rimane il ricordo come personaggio che conta men di niente nel detto: – “e ccu sugnu, Pippenninu?” – (variante Stucchìnu).
Veri artisti erano le persone addette alle rappresentazioni; sapevano muovere con maestria i pupi manovrando i fili e facendo cadere le teste recise al momento giusto, bravi nel preparare i vestiti e le armature e bravo anche il dipintore dei cartelloni, nel raffigurare gli episodi che il pubblico voleva già vedere e capire in anteprima. Chi eccedeva in maestrìa era il capo della compagnia, a cui si doveva l’impostazione del racconto, il modo di porlo, rendendo il pubblico più recettivo possibile. Conoscendo bene l’animo degli spettatori bisognava porgere gli avvenimenti – come sanno fare tutti gli addetti al teatro – in modo che avvenisse al meglio l’dentificazione tra spettatori e storia. Il racconto di gesta eriche, di combattimenti fra il bene e il male, fra valorosi guerrieri senza macchia e senza paura e le forze del male (gli infedeli, i traditori, i mostri), che ben si addice a un pubblico, come il siciliano, amante dell’epos e di quel senso della giustizia di cui difficilmente godeva nella vita reale. Anche l’indignazione del pubblico di fronte all’eccessiva morìa di infedeli evidentemente era condotta volontariamente.
La frase “scalàmula mastru Giuvanni” con le sua varianti (Peppe, Ninu, Natàli, ecc.) era diffusa in tutta la Sicilia. Era voluta e cercata e nessuno del pubblico sfuggiva al desiderio di pronunciarla.
Racconta un furciòto che, trovandosi per caso a Giarre ad assistere ad uno spettacolo dei Pupi, di fronte alla solita frase “scalàmula mastru Giuvanni!” esclamata a gran voce dal pubblico, il maestro ne pronunciò una uguale passata alla storia: – Se da qui non esce quel bastardo di furciòto io non vado avanti con la recita – pensando che fosse stato un nostro paesano a sobillare l’uditorio.
“Mmugghiàri ì pupi”, detto siciliano che corrisponde a por fine ad una vicenda iniziata e con poche speranze di essere portata bene a compimento, deriva proprio dall’atto finale dei pupari che, alla fine dellev rappresentazioni, mettevano tutto da parte, raccogliendoli ed avvolgendoli, pronti a partire per una nuova destinazione. Potrebbe derivare da ammogghiu, in siciliano fagotto e anche pannolino per il neonato, in questo caso inzuppato, ammollato di pipì. Dal latino parlato admolliare, ammollare.
1) Magazzene: dall’arabo makohzin = deposito.
2) Fare “minnìtta” sta per fare strage, fare a pezzettini i nemici, da fare “vindìtta” = vendetta.
3) Durlindana: (spada) di Orlando.
NOTA: I testi sono tratti dal libro di Franco Maccarrone “SALVIAMO ‘A MUSTICA. Furci Siculo fra Storia Tradizioni e Lingua”. Prima edizione, Luglio 2006. (Riproduzione riservata).
MARIONETTE. PALERMO E CATANIA, DUE SCUOLE DIVERSE
Ci sono differenze tra i teatrini di Palermo e di Catania. Il primo ha dimensioni più piccole ma più riccamente decorato. Catania ha uno scenario unico. Alcuni pupazzi hanno compiti specifici: uno annuncia il titolo dello spettacolo, due altri burattini scambiano qualche parola prima di iniziare per creare l’atmosfera perfetta e per catturare l’attenzione del pubblico, un altro, infine, fornisce una breve sintesi della rappresentazione. Le due principali città siciliane mostrano differenze anche nella forma e nella dimensione delle marionette. Il palermitano è di circa 90 centimetri di altezza e pesa meno di quindici chili. Le sue dimensioni più piccole permettono più mobilità. Il catanese è più grande e più pesante e raggiunge 140 centimetri di altezza e 35 chili di peso.
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