Storie di Sicilia
6 GIUGNO 1861: QUALE STATO PER L’ITALIA UNITA?
L’Italia era stata unificata a livello territoriale: ora bisognava unificarla a livello politico, amministrativo ed economico. Ma con quale tipo di stato? Dinanzi alle “cento Italie” e alle grandi differenze che storicamente caratterizzavano le aree fino a quel momento governate da Stati diversi, appariva fondata l’ipotesi di un sistema statale decentrato, in cui cioè fosse riconosciuta un’ampia autonomia alle diverse realtà regionali. Tuttavia, di fronte all’esigenza di consolidare l’unità e all’urgenza di tanti problemi da risolvere, prevalse il modello dello Stato Centalizzato. Il Risorgimento e l’unificazione nazionale si erano realizzati attraverso il meccanismo delle annessioni, quindi come espansione dello Stato sabaudo; allo stesso modo anche l’organizzazione del nuovo Stato italiano avvenne come estensione degli ordinamenti e delle istituzioni dello Stato piemontese.
Concretamente vinse la linea tracciata da Cavour, morto proprio poche settimane dopo la proclamazione dell’Unità, il 6 giugno 1861:
• rispetto delle libertà costituzionali;
• liberismo in economia;
• forte accentramento amministrativo e fiscale;
Il primo atto del nuovo governo, infatti, fu quello di estendere a tutta la Nazione lo Statuto albertino, che regolava la monarchia costituzionale sabauda e garantiva le libertà civili fondamentali. Un’altra questione importante riguardava la classe dirigente politica espressa dal nuovo Parlamento: in che misura rappresentava il Paese?
La legge elettorale piemontese, estesa all’intera Nazione, concedeva il diritto di voto solo a chi pagava una certa somma di tasse, sapeva leggere e scrivere e aveva compiuto i 25 anni. Nelle prime elezioni dell’Italia unita i cittadini con diritto di voto furono 400.000 su quasi 25 milioni di abitanti. Solo il 2% di tutta la popolazione, quindi, elesse i suoi rappresentanti al Parlamento: questi appartenevano all’aristocrazia, alla borghesia mercantile e industriale e al ceto dei grandi proprietari terrieri. Il Paese legale, quello dei politici eletti, era troppo lontano e non rappresentava il Paese reale, e cioè la stragrande maggioranza del popolo italiano, fatto di contadini analfabeti e poveri, esclusi dal diritto di voto.
Anche l’organizzazione del nuovo Stato italiano procedeva quindi, come il Risorgimento politico, sotto la guida di un’èlite e il cammino verso il riconoscimento del principio della sovranità popolare sarebbe stato ancora lungo.
IL GOVERNO DELLA DESTRA
Nel Parlamento del nuovo Stato unitario il gruppo di maggioranza (l’80% dei seggi) era costituito dai liberali-moderati, esponenti della “Destra”. La minoranza, il 20% restante, era costituita dalla “Sinistra” e comprendeva democratici provenienti dalle fila del movimento mazziniano e garibaldino, ma che avevano accettato la soluzione della monarchia costituzionale sabauda. I governi dei primi quindici anni di Stato unitario furono formati dalla Destra, che fu poi chiamata “storica” per la funzione fondamentale che assolse nell’organizzare il primo Stato italiano.
I suoi rappresentanti erano tutti seguaci di Cavour: Bettino Ricasoli, Marco Minghetti, Umberto Rattazzi, Stefano Jacini, Emilio Visconti Venosta, Alfonso La Marmora. Se per diversi pur provenienza e formazione, essi condivisero il progetto di uno Stato amministrativamente accentrato e costruito per gerarchie.
A questo modello si oppose sempre la Sinistra, che continuò a sostenere le ragioni del decentramento amministrativo e del suffragio universale, in linea con le battaglie risorgimentali dei mazziniani repubblicani e dei democratici. Di fronte ai e molteplici problemi che affliggevano l’Italia appena unificata, gli uomini della Destra storica compirono delle precise scelte politiche ed economiche che ne guidarono l’azione di governo.
L’ORGANIZZAZIONE AMMINISTRATIVA
L’Itala fu divisa in Comuni e Province, senza poteri decisionali autonomi. Tutto faceva capo al governo centrale e ai ministeri. I sindaci dei Comuni erano nominati dal re; le Province erano governate da un prefetto, rappresentante del potere esecutivo, attraverso il quale il governo esercitava il controllo su tutto il Paese. La moneta, i pesi e le misure vennero unificati. Il Codice civile e il Codice penale dello Stato sabaudo vennero assunti dallo Stato italiano.
IL PROBLEMA DEL BILANCIO
Al momento dell’unificazione le disponibilità finanziarie del nuovo Stato erano al minimo e il Paese aveva bisogno estremo di fondi per il funzionamento dell’amministrazione, dell’esercito, della scuola e per la realizzazione delle infrastrutture (ferrovie, strade, porti, servizio postale e così via). Il nuovo Stato aveva riconosciuto e fatti suoi i debiti degli Stati della penisola che avevano cessato di esistere, ai quali si aggiungevano quello del Regno di Sardegna, aggravato dal decennio di guerre risorgimentali.
Il bilancio dello Stato era, inoltre, in forte deficit: le uscite superavano le entrate. Per riequilibrare la situazione finanziaria si risparmiò sulle spese generali; si vendettero molti beni dello Stato, soprattutto terreni (demanio), e i beni degli enti ecclesiastici soppressi; furono emessi titoli di Stato (con cui si prometteva una rendita a chi prestasse soldi allo Stato) per chi voleva investire; si introdussero nuove tasse. Tra queste la più impopolare fu la tassa sul macinato, che si doveva pagare su qualsiasi quantità di grano si macinasse per ricavare la farina. Era una imposta che gravava sui ceti popolari, i quali si nutrivano quasi esclusivamente di pane, pasta e polenta.
Grazie all’opera del ministro delle finanze Quintino Sella, anche i sacrifici sopportati dalle classi sociali più povere furono premiati: nel 1875 l’Italia raggiunse il pareggio del bilancio (cioè il pareggio tra le entrate e le uscite) e conquistò, così, la fiducia internazionale.
L’ESERCITO
Nel 1861 nacquero le Forze Armate italiane, inizialmente composte quasi esclusivamente dall’Arma dei Carabinieri e dall’esercito regolare piemontese. In tutta Italia fu introdotto il servizio di leva obbligatorio, che suscitò vaste proteste nel Mezzogiorno. La durata fu inizialmente fissata a 6 anni e poi via via ridotta fino a 2-3 anni. In tal modo si privavano le famiglie contadine del lavoro dei giovani, che all’età di 20 anni erano costretti a partire: proprio quando il loro aiuto sarebbe stato più utile. Il servizio di leva contribuì comunque alla formazione di una identità nazionale, amalgamando giovani di diversa provenienza regionale che nemmeno parlavano la stessa lingua (ciascuno legato al proprio dialetto), costretti ad uscire dalla ristretta dimensione locale in cui erano nati e cresciuti.
SCOLARIZZAZIONE E LOTTA CONTRO L’ANALFABETISMO
Uno dei compiti più difficili dei governi del nuovo Stato fu quello della lotta contro l’analfabetismo. Alla data dell’Unità solo il Piemonte, Liguria e Lombardia avevano una buona percentuale (46%) di abitanti che sapevano “leggere, scrivere e fare di conto”; in tutte le altre regioni la situazione era desolante. Diffondere la scuola, l’istruzione e la lingua italiana fu, dunque, un impegno politico difficile, ma fondamentale.
Si estese a tutto il Regno la legge Casati vigente in Piemonte, che istituiva la scuola elementare gratuita, della durata di 4 anni. I primi 2 anni furono poi resi obbligatori nel 1877 (legge Coppino).
Nonostante la scuola non fosse più a pagamento, non erano in molti a frequentarla; la disertavano soprattutto i figli di contadini, ritenuti più utili nel lavoro dei campi. Il compito di allestire locali per la scuola era assegnato ai vari Comuni, che disponevano di pochi mezzi finanziari e, quindi, raramente trovavano soluzioni edilizie adeguate.
L’ANALFABETISMO IN ITALIA (esempi)
SICILIA: 1861 (89%); 1871 (85%); 1881 (81%); 1901 (71%); 1911 (58%).
SARDEGNA: 1861 (90%); 1871 (86%); 1881 (80%); 1901 (68%); 1911 (58%).
PIEMONTE: 1861 (54%); 1871 (42%); 1881 (32%); 1901 (18%); 1911 (11%).
IL SISTEMA DEI TRASPORTI
Una reale unificazione del Paese e la creazione di un mercato nazionale richiedevano l’approvazione di un valido sistema ferroviario che collegasse le diverse zone della penisola. La classe dirigente dello Stato unitario era fortemente convinta della necessità di una moderna rete ferroviaria: dal 1860 al 1885 furono costruiti più di 6000 Km di ferrovie, con un grandissimo sforzo finanziario.
Dato che lo Stato non era in grado di pagare tutte le spese di queste opere, stipulò delle convenzioni con alcune grandi società, tra cui la Società Italiana per le Strade Ferrate Meridionali fondata dal finanziere Pietro Bastogi. Per costruire binari e vagoni a Napoli erano sorti gli stabilimenti di Pietrarsa e a Genova quelli dell’Ansaldo, anche se la dipendenza dall’estero sarebbe durata a lungo. All’Italia, infatti, mancava ancora un’ossatura industriale (industria meccanica, siderurgica e chimica) e facevano difetto materie prime fondamentali come il ferro e il carbon fossile.
LA QUESTIONE MERIDIONALE E IL PROBLEMA DEL BRIGANTAGGIO
La situazione di difficoltà economica e sociale riguardava tutte le regioni italiane, ma in particolar modo il Sud. Il Mezzogiorno era entrato a far parte del nuovo Stato unitario in condizioni di svantaggio. Nell’Italia centro-meridionale la terra non apparteneva quasi mai a chi la coltivava, vasti possedimenti restavano incolti per il disinteresse del proprietario. Ben presto, dunque, si cominciò a parlare di una “questione meridionale” e di come aiutare il Sud ad uscire dalla grave arretratezza in cui si trovava.
In un momento in cui la Nazione aveva bisogno dello sforzo e del sacrificio di tutti per costruirsi come Stato, il Mezzogiorno non era nelle condizioni di sopportare altre rinunce. Il popolo del Sud cominciò a sentire il governo come estraneo e ostile: il malcontento nasceva dal continuo rinvio della riforma agraria, dall’imposizione di nuove tasse e dal servizio di leva obbligatorio, che danneggiavano le classi sociali più povere.
La sfiducia nell’autorità portò alla nascita di organizzazioni illegali e di bande di briganti: esse raccoglievano spesso il consenso e l’appoggio del popolo, che si opponeva alle decisioni di uno Stato accentratore, che non faceva che imporre sempre nuovi e pesanti obblighi. Il brigantaggio costituì, per un intero decennio, la più grave minaccia alla stabilità delle nuove istituzioni. In particolare dal 1861 al 1864 lo Stato fu impegnato in una vera e propria guerra nella quale furono utilizzati oltre 160.000 soldati dell’esercito regolare.
NOTA: I testi sono tratti dal libro per la scuola: “Storia ed educazione alla cittadinanza”. Edizione 2005.
Invia un Commento