Storie di Sicilia
DA OPERAZIONE “MANI PULITE” ALLA SECONDA REPUBBLICA
Più che dagli eventi storici e dal travaglio del maggior partito dell’opposizione, il sistema politico italiano fu scosso da una serie di inchieste giudiziarie su casi di corruzione e di finanziamento illecito dei partiti, che travolsero i principali esponenti politici e i partiti di governo. Un’intera classe dirigente politica venne spazzata via in un clima di generale ribellione della “società civile” (ossia di quanti svolgono attività estranee alla politica) contro il cosiddetto “Palazzo”, ovvero contro il mondo e la “casta” dei politici.
Nei primi mesi del 1992 un pool di magistrati della Procura della Repubblica di Milano, guidata da Francesco Saverio Borrelli, avviava una serie di inchieste che rivelarono una diffusa corruzione nell’ambito dei rapporti tra pubblica amministrazione, imprese e partiti politici.
Le inchieste, note con il nome di operazione “Mani Pulite”, misero in luce il sistema delle tangenti (da cui il termine Tangentopoli per indicare il fenomeno), ovvero delle somme di denaro versate a pubblici amministratori e funzionari di partito in cambio dell’assegnazione di appalti da parte di enti pubblici.
Le inchieste di “Mani pulite” e i loro clamorosi risvolti monopolizzarono l’attenzione dell’opinione pubblica. Nelle case italiane le televisioni diffusero le immagini dei leader politici nazionali sottoposti ad interrogatorio nelle aule dei tribunali. Fu in quelle circostanze che assunse a notevole popolarità il pubblico ministero Antonio Di Pietro, divenuto simbolo della magistratura impegnata a combattere la corruzione.
Le inchieste furono inizialmente condotte da un pool della Procura della Repubblica di Milano (formato dai magistrati Antonio Di Pietro, Piercamillo Davigo, Francesco Greco, Gherardo Colombo, Tiziana Parenti, Ilda Boccassini) e allargate a tutto il territorio nazionale, diedero vita ad una grande indignazione dell’opinione pubblica e di fatto rivoluzionarono la scena politica italiana. Partiti storici come la Democrazia Cristiana, il Partito Socialista italiano, il PSDI, il PLI, sparirono o furono fortemente ridimensionati, tanto da far parlare di un passaggio ad una Seconda Repubblica.
Esplode Tangentopoli anche in Sicilia, e nella patria dell’omertà tre imprenditori vuotano il sacco come a Milano, sostenendo di avere versato contributi per le campagne elettorali a diversi potenti dello scenario politico dell’isola, a ministri e assessori, notabili da sempre al governo e paladini dell’opposizione.
La magistratura italiana combatteva, in quello stesso periodo, su un altro fronte: quello della criminalità organizzata di tipo mafioso. La degenerazione della politica e la corruzione avevano permesso alle organizzazioni criminali di crescere al punto da non fermarsi di fronte a tutti coloro che con coraggio e onestà tentarono di opporvisi.
In tragici attentati furono uccise molte persone, fra cui, nel 1992, i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Dopo questi delitti eccellenti, la mafia ha proseguito nella sua strategia con attentati che dovevano assumere un significato fortemente simbolico e provocatorio: quello di Roma a San Giovanni in Laterano, quello di Firenze all’Accademia dei Georgofili e quello di Milano in via Palestro nell’estate 1993.
Una risposta convinta dello Stato contro questa strategia delittuosa della mafia avvenne solo con l’introduzione di misure a favore dei pentiti (criminali mafiosi disposti a collaborare con la giustizia) e altre, invece, di restrizione (carcere duro) contro i criminali incarcerati.
Nella prefazione del libro “La verità di Di Pietro” (di Roberto Maggi, pubblicato nel gennaio 1996), Giorgio Bocca, scrive:
“Il saggio sulla vicenda giudiziaria di Antonio Di Pietro è percorso da un sentimento di incredulità e quasi di sgomento: ma possibile che il mondo sia così malvagio? Che le trame e nidi di vipere siano così impudenti e indecenti? Che politica e giustizia siano in lotta per il potere senza esclusione di colpi? Questa incredulità, questo sgomento del giudice che pure è passato ad occhi aperti per l’esperienza di Mani Pulite, che ha fatto Mani Pulite, anche perché ne conosceva i personaggi e i loro usi e costumi meglio di altri, diciamo pure la ingenuità con cui si è affidato alla giustizia convinto che non poteva non essere giusta, hanno deluso alcuni dei suoi sostenitori, non noi che in questa ingenuità vediamo la conferma delle sue qualità umane”.
“In una recente dichiarazione, (Giorgio Bocca prosegue, ndr), Di Pietro ha detto di sentirsi “sepolto”, come uno finito dentro una fitta tela di ragno da cui non riesce a liberarsi: apre i giornali e scopre che i laudatores di ieri stanno come iene o come corvi pronti a divorarlo; apre la televisione e sente l’amico moralista di ieri che lo fa a pezzi, scopre anche che una parte della magistratura ha preso le distanze quando non ha addirittura testimoniato contro di lui. Ogni giorno la sua manciata di fango, le menzogne, le diffamazioni a ritmo continuo e ossessivo che non hai neppure il tempo per smentirle”.
“Chi scrive (Giorgio Bocca, ndr), non conosce e non ha alcun interesse di conoscere vita, morte e miracoli dei procuratori di Brescia. Non può fare a meno però, leggendo il loro atto di accusa, di osservare che esso si fonda su alcuni curiosi teoremi. Il primo è che avere degli amici, fidarsi degli amici, aiutare gli amici sia una prova inequivocabile di concussione e simili gravi reati. Un teorema calato nella vita comune, nella storia di questo Paese come un’idea platonica, indiscutibile. Prendiamo la imputazione sulla nomina a capo dei vigili urbani del signor Eleuterio Rea. Per il teorema bresciano, Rea è uno che l’amico-giudice Di Pietro ha voluto imporre al comando dei vigili urbani per suoi non chiari ma loschi interessi.
Il teorema ignora, per cominciare, cosa era la Milano del potere craxiano: in essa era perfettamente normale che un sindaco come Pillitteri, proconsole del dominio craxiano, volesse a capo dei vigili un uomo suo con il consenso degli altri partiti nella logica delle spartizioni. Di Pietro ha cercato di favorire la nomina di uno che era stato suo collega nella polizia milanese? Può darsi, ma nel rispetto della legge, chiedendo e ottenendo il permesso del procuratore generale Borrelli, partecipando a una sola riunione preliminare sui criteri da adottare nel concorso. Ma il teorema non conosce ostacoli: anche uno che non ha partecipato alle riunioni in cui si è decisa la nomina, magari un fatto di potere discutibile ma non certo un reato, viene ritenuto responsabile. E si cerca una conferma nelle dichiarazioni dell’ex sindaco che è il cognato di Craxi, per cui Di Pietro è peggio del demonio. La giustizia dei teoremi in vigore alla Procura di Brescia si segnala per la disinvoltura con cui tramuta dei fatti di costume o di interessi in reati. Il fatto per esempio che la moglie di Di Pietro, signora Mazzoleni, abbia avuto alcune pratiche della MAA Assicurazioni del signor Gorrini, principale teste d’accusa, diventa un reato di concussione; il potentissimo procuratore Di Pietro avrebbe chiesto e ottenuto il favore. Non ha alcuna importanza per il teorema che la famiglia Mazzoleni e lo studio legale Mazzoleni lavorassero da trenta e passa anni per la MAA, avessero rapporti di amicizia con Gorrini. La parentela con Di Pietro poteva essere una influenza su questi rapporti? È come dire che al mondo esistono le relazioni umane, di parentela, di amicizia per concussione.
[…] Ma che strano concessore questo Di Pietro! Un mestatore assetato di potere, che quando Belusconi gli offre il ministero più importante, quello degli Interni, rifiuta. Però, dicono i procuratori, nella faccenda della informatizzazione cercò l’appoggio dell’allora ministro Remo Gaspari.
In quale paese vivevano i procuratori di Brescia negli anni della partitocrazia? Nessuno ha mai detto loro che il rapporto fra magistratura e politica per la gestione del potere era cosa normale e lo è tutt’ora? Nessuno ha mai detto loro che i più alti gradi della magistratura milanese coltivavano assiduamente le amicizie e le protezioni dei politici?
Nei giorni scorsi (si avvia alla conclusione Giorgio Bocca, ndr), i giornali sono stati pieni del grande scandalo: Antonio Di Pietro, il giudice coraggioso e virtuoso, era un golpista. Lo “ha scritto nero su bianco e controfirmato”, come ha detto nelle sue conferenze stampa il cavaliere Silvio Berlusconi nella sua confessione fiume alla procura di Brescia. Mi sono letto questo programma eversivo e ne ho avuto la stessa impressione del senatore Pellegrino, presidente di commissione parlamentare: che si trattasse delle stesse, stessissime cose discusse in decine di convegni per trovare una soluzione politica e giudiziaria a Mani Pulite, diciamo per venir fuori dai furti in un Paese di ladri. Qui la ingenuità di Di Pietro forse è stata eccessiva, questo parlare da amico a non benevoli colleghi, così come a noi è parso un errore l’ondeggiamento politico. Ma si tratta di cose che esulano dalle ragioni per cui abbiamo avuto e abbiamo grande stima di Antonio Di Pietro: l’aver assunto nell’ora giusta la piena responsabilità di giudice, l’aver perseguitato e fatto condannare anche gente che conosceva, il non aver guardato in faccia nessuno. Sono cose che in Italia non si perdonano, ma questo Di Pietro lo sapeva e non si è tirato indietro”.
Nel 1993 gran parte degli italiani si è espressa (con un referendum) a favore dell’introduzione di un sistema a carattere maggioritario. Il sistema maggioritario ha imposto ai partiti l’esigenza di unirsi in coalizioni o poli per vincere le elezioni e governare. Nel 1994 riuscì vincitrice Forza Italia, il primo governo di Silvio Berlusconi. Dopo pochi mesi, però, l’uscita dalla coalizione di governo da parte della Lega Nord, ne causò la caduta.
14 Agosto 2013
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