Storie di Sicilia
Italia anni 50-60: “quando gli emigranti disperati eravamo noi” (parte seconda)
“CON LE VALIGIE DI CARTONE, VERSO IL NORD O L’ESTERO”
L’aspetto forse più significativo degli anni ’50, dal punto di vista socio-economico, fu il grande movimento migratorio che spostò masse rurali, soprattutto meridionali, alla ricerca di nuove opportunità di lavoro, verso le regioni più industrializzate del Settentrione o verso Paesi esteri.
Durante il decennio 1951-1961 le grandi città del Nord aumentarono in misura considerevole la loro popolazione, soprattutto Torino (+42,6%) e Milano (+ 24,1%). Anche i Comuni della cintura industriale torinese e milanese registrarono un forte aumento del numero degli abitanti, dovuto a una massiccia immigrazione. Lo stesso fenomeno interessò anche Roma, meta di un’importante migrazione proveniente soprattutto dalle regioni vicine: Abruzzo, Molise, Campania.
Le regioni italiane che assorbirono la maggior parte dell’emigrazione dal Meridione furono il Piemonte, la Liguria e la Lombardia, quelle del cosiddetto “triangolo industriale”.
In assoluto, le regioni da cui si registrò il maggior numero di partenze furono la Basilicata e la Calabria.
Nelle città e nelle aree urbane l’arrivo degli emigrati creò nuovi bisogni e problemi sociali. Gli immigrati dovettero affrontare le difficoltà dell’inserimento in città sconosciute, in alloggi con scarse comodità, in ambienti spesso ostili per pregiudizi e incomprensione verso i nuovi arrivati. In molti casi si verificò uno sfruttamento selvaggio degli immigrati, costretti a vivere in baracche, cantine, solai, senza nessuna assistenza, senza difese nei confronti di quanti spesso approfittavano delle loro condizioni di bisogno.
Uno storico contemporaneo descrive così la situazione del lavoro dell’epoca:
“Molti emigranti provenivano dal Sud, alla fine degli anno ’50, trovavano il loro primo impiego, soprattutto a Torino, attraverso ’cooperative’. Organizzatori di tali ‘cooperative’ erano, in genere, capetti di origine meridionale che rifornivano le fabbriche del Nord di mano d’opera a basso costo in cambio di lucrose tangenti. Il lavoratore versava una tassa di iscrizione alla ‘cooperativa’ e iniziava a lavorare senza alcun contratto ufficiale, e senza che il datore di lavoro pagasse i contributi per la pensione né l’assicurazione. L’azienda, riconoscente, retribuiva la ‘cooperativa’ con un certo ammontare per lavoratore, ma nelle tasche di quest’ultimo finiva in genere la metà, o meno, dell’intera somma.
Si trattava di uno dei classici sistemi per dividere la forza-lavoro, dal momento che gli operai settentrionali vedevano minacciato il loro potere di contrattazione da questi ‘terroni’ che facevano lo stesso lavoro per solo un terzo del loro salario. Queste ‘cooperative’ nella sola Torino raggiunsero il numero di 300, controllando circa 30.000 operai. Nell’ottobre 1960, dopo una diffusa protesta dei sindacati e degli stessi immigrati, le ‘cooperative’ furono messe fuorilegge.
Le condizioni di lavoro nelle piccole e medie aziende erano molto dure. L’orario di lavoro, compresi gli straordinari, durava raramente meno di dieci o dodici ore. I contratti erano sempre brevi, da tre a sei mesi, e la mobilità elevata quasi come nell’edilizia. La massa dei meridionali restava confinata nella terza delle tre categorie operaie, con scarsissime possibilità di avanzamento. Le aziende più grandi, come Fiat, cercarono in questi anni di evitare di assumere, per quanto possibile, mano d’opera meridionale, preferendo attingere al tradizionale serbatoio della campagna piemontese e lombarda”. (P. Ginsborg)
Gli amministratori pubblici delle grandi città si trovarono impreparati a risolvere i pressanti problemi dei servizi, dei trasporti, della casa e dell’integrazione sociale.
Il pur forte sviluppo industriale delle città del Nord Italia non riuscì a soddisfare la grande richiesta di lavoro che proveniva dalle aree rurali delle regioni meridionali.
DOCUMENTO: “BASTA ASSUNZIONI IN FABBRICA: NON CI SONO PIU’ POSTI PER DORMIRE IN CITTÀ”
Il titolo sottolinea la situazione paradossale che si creò a Torino, meta preferita per gli immigrati del Sud, a causa delle richieste di operai da parte della FIAT. A metà anni Sessanta il flusso migratorio aveva toccato l’apice, ma la città di Torino non era in grado di assorbirlo. A parlare è il sacerdote don Allais, direttore del Centro immigrati meridionali.
“Porto qui la voce dell’esperienza che mi viene dal contatto quotidiano con la manodopera immigrata che giunge a Torino, dal Sud. Sarò molto sintetico. Vorrei rivolgere due appelli:
1. ai datori di lavoro;
2. agli enti pubblici.
“Siamo arrivati ad un punto limite di saturazione e di rottura per il problema alloggio. Il nostro ufficio ha schedato 281 pensioni in Torino in base agli elenchi che sono stati forniti dall’Ente provinciale per il turismo. Praticamente sono tutte. Si può affermare con certezza che oggi le possibilità ricettive sono nulle. Fino alla settimana scorsa occorreva fare in media una ventina di telefonate per reperire un posto; ieri mattina si sono dovute fare decine e decine di telefonate per non trovare neanche un posto.
Abbiamo dovuto mandare i due operai che si rivolgevano a noi al dormitorio pubblico. Questa notte ho mandato degli assistenti sociali alla stazione di Porta Nuova dove ogni notte si possono trovare dalle 150 alle 200 persone che vi dormono. […].
In questa situazione è doveroso rivolgere un appello ai datori di lavoro: si accetti una tregua nelle assunzioni di manodopera del Sud. Non può essere utile a nessuno e può invece essere dannoso per tutti far venire dei lavoratori a Torino quando non hanno la possibilità di essere nemmeno accolti in un letto confortevole. Il mio punto di vista è quello dell’uomo della strada il quale pensa all’immigrato che deve dormire questa sera, non fra due anni […].
Tregua dunque, il che non significa punto e basta, ma pausa, periodo di attesa. Gli enti che ne hanno il dovere si mettano a fare i calcoli: arrivano tanti, ci sono tanti posti per ospitarli? Sì, no. Se sì, si vada avanti, se no ci si arresti. Si tratta, in fondo, anche di buon senso e di prudenza: queste persone che di notte dormono a Porta Nuova fra poco ce le potremo trovare sulla strada a reclamare, ed avranno ragione”.
(da D. Novelli, Dossier Fiat, Editori Riuniti)
Buona parte dell’emigrazione si diresse quindi verso alcuni Paesi europei: Germania, Svizzera, Belgio, Francia; oppure verso le tradizionali mete extraeuropee dell’emigrazione fin dall’inizio del Novecento: Brasile, Stati Uniti, Venezuela, Argentina, Australia.
L’emigrazione in ambito europeo fu favorita da una legge del 1950 e dalla progressiva integrazione dell’Italia nelle nuove istituzioni dell’Europa unita. Complessivamente il fenomeno migratorio fuori Italia interessò, tra il 1948 e il 1963, più di 6.500.000 di persone.
L’EMIGRAZIONE AMERICANA
La simbolica data d’inizio dell’emigrazione italiana nelle Americhe può essere considerata il 4 ottobre 1852, quando venne fondata a Genova la Compagnia Transatlantica per la navigazione a vapore con le Americhe, il cui principale azionista era Vittorio Emanuele II. Tale compagnia, all’uopo, commissionò ai cantieri navali di Blackwall i grandi piroscafi gemelli Genova, varato il 12 aprile 1856, e Torino, varato il successivo 21 maggio.
10 Agosto 2013
Giovanni Bonarrigo
LA LEGGENDA DEL PIANISTA SULL’OCEANO. (di Ennio Morricone, in concerto all’Arena di Verona)
LA PRIMA PARTE: ITALIA ANNI 50-60: DALLA SPERANZA AL “MIRACOLO ECONOMICO” (parte prima)
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