Storie di Sicilia
L’INTERA STORIA DELLA SICILIA, IN DUE PAROLE (PARTE SECONDA)
LA DOMINAZIONE ANGIOINA (1268 – 1282)
I dodici anni del dominio angioino furono tra i più tristi della storia sicula: la capitale fu spostata da Palermo a Napoli e i francesi fecero pagare alla Sicilia la fedeltà agli Svevi con crudeltà e angherie, imponendo forti tasse che i siciliani già spremuti da Federico non potevano pagare.
Il re Carlo non venne mai in Sicilia, tranne pochi giorni nel 1270, di passaggio: non prese nessun provvedimento per migliorare l’economia, non assegnò a un siciliano cariche importanti, i funzionari siciliani erano agli ordini di amministratori francesi boriosi, rapaci e corrotti. Inoltre quasi in tutte le case bisognava alloggiare i militari francesi: nelle case dei più ricchi gli ufficiali, in quelle dei poveri la truppa. Naturalmente, risaputa l’importanza data dai siciliani alla privacy familiare, questo portò a violenze per uomini e donne.
La Sicilia si liberò dal malgoverno angioino con un moto popolare famosissimo: i Vespri siciliani. La scintilla del noto episodio fu la scostumatezza di un francese, un certo Droetto, che mise le mani addosso a una sposa palermitana, col pretesto di una perquisizione per cercare armi nascoste. Era il 30 marzo 1282, lunedì di Pasqua, vicino alla chiesa di S. Spirito a Palermo al suono delle campane del Vespro.
Dante cita questo episodio nel Paradiso (VIII, v. 73-75) dicendo che la “mala signoria degli angioini “mosse Palermo a gridar: mora, mora!”.
Il Vespro siciliano fu un fenomeno generato dall’odio popolare e vi partecipò tutta l’isola, fatta eccezione per il castello della Sperlinga. In tutta la Sicilia si scatenò la caccia al francese, e inutilmente qualcuno cercò di travestirsi per passare inosservato, perché si faceva dire loro “ciciri” e poiché in francese è impossibile pronunciarlo alla siciliana, l’impostore veniva subito scoperto e ucciso.
Fra i tanti episodi che si tramandano intorno al Vespro siciliano, è notevole la storia di due donne messinesi, Dina e Clarenza, che salvarono Messina da un attacco notturno degli angioini assedianti nell’agosto 1282, dando l’allarme. Questo episodio è glorificato nell’orologio del duomo di Messina, dove sono raffigurate le due eroine che battono i quarti e le ore.
Palermo e Messina si eressero a libero comune, ma poi il Parlamento siciliano chiamò nell’isola Pietro III d’Aragona, marito di Costanza figlia di Manfredi, per attribuirgli la corona.
LA GUERRA DEI NOVANT’ANNI E IL DOMINIO ARAGONESE (1282 – 1412)
La guerra combattuta dai siciliani contro gli angioini di Napoli durò 90 anni e si concluse col trattato di Avignone nel 1372. una guerra così lunga non si svolse continuativamente, ma fu punteggiata di tregue, armistizi, fasi interlocutorie. Essa si può suddividere in tre episodi:
1) i venti anni che vanno dall’insurrezione del Vespro (30 marzo 1282) al trattato di Caltabellotta (31 agosto 1302).
Tutti i tentativi di riconquista dei francesi furono respinti e il Parlamento siciliano, anche se non molto propenso a sottomettersi a un re straniero, offrì la corona a Pietro III d’Aragona. Infatti era chiaro che i siciliani da soli non avrebbero potuto resistere a lungo contro gli angioini. Il re promise solennemente di rispettare i privilegi di cui la Sicilia godeva al tempo di Guglielmo II il Buono. Il trattato di Caltabellotta, dopo una guerra sanguinosa, conferiva a Federico III, figlio di Pietro d’Aragona il titolo di re di Trinacria e stabiliva che alla sua morte la Sicilia sarebbe tornata agli angioini.
2) i quarantacinque anni che vanno dal trattato di Caltabellotta, che nessuno osservò, fino al tentativo di pacificazione del Papa Benedetto XI (1347).
Federico III si meritò il titolo di “grande re” e sostenne l’imperatore Enrico VII di Lussemburgo. La guerra continuò con alterne vicende, il re suddivise la Sicilia in quattro valli, aggiungendo alle tre arabe la val di Girgenti; inoltre pare che Federico abbia organizzato una scuola statale per la prima volta in Europa. Morì nel 1337 e gli successe il figlio Pietro, considerato un incapace. Il regno venne allora governato dal fratello del re, Giovanni marchese di Randazzo, che fu poi tutore del nipote Ludovico. Egli morì nella peste del 1348, lasciando il regno in balìa delle lotte fra Catalani (nobili di origine spagnola) e Latini (nobili siciliani). La pace concordata a Catania fra angioini e spagnoli non fu approvata dal Papa e la guerra continuò.
3) i venticinque anni che vanno dalla pace di Catania al trattato finale di Avignone (20 agosto 1372) voluto da Gregorio XI.
È un periodo caratterizzato dall’anarchia feudale in cui era caduto il regno dopo la morte di Giovanni di Randazzo. Anche il re Federico IV regnava più nome che di fatto, nel frattempo si rafforzò l’autorità papale di Gregorio XI, che riportò a Roma la sede papale dopo l’esilio avignonese. Il trattato che concluse questa lunghissima guerra favoriva solo gli interessi della Chiesa e stabiliva che in caso di morte del re senza eredi il regno sarebbe tornato al Papa che ne era il signore feudale.
Il potere politico nell’isola, data l’inettitudine del re, passò alle quattro famiglie più potenti: gli Alagona, i Chiaromonte, i Ventimiglia e i Perolta. Si ebbe fino al 1392 il governo dei quattro vicari. Gli altri baroni, esclusi dal potere scatenarono la guerra civile.
Nel 1392 diventò re di Sicilia Martino I d’Aragona, che aveva sposato Maria, figlia di Ferdinando IV: alla sua morte gli successe il padre che regnò col nome di Martino II e infine il nipote di questo, Ferdinando di Castiglia (1412).
Il periodo della dominazione aragonese fu negativo per l’economia, a causa della lunga guerra, le condizioni dei contadini furono durissime, carestie ed epidemie afflissero l’isola. La situazione era leggermente migliore per il commercio, infatti mercanti pisani e fiorentini avevano aperto logge e fondaci a Palermo e Messina. Il commercio si svolgeva quasi esclusivamente via mare, sia per gli scambi interni che per quelli con l’estero. Lo stato delle strade era disastroso, il manto stradale per mancanza di manutenzione si poteva percorrere solo a dorso di cavalcatura, in città i carri non potevano transitare a causa delle strade troppo strette, i ponti costruiti in epoca romana erano crollati. Inoltre i baroni spesso pretendevano il pagamento di un pedaggio e a volte si incontravano i banditi. Si esportava dalla Sicilia il grano, e poi olio, legumi, formaggi, miele, carrube, lana grezza, pelli, perle.
LA SICILIA DEL QUATTROCENTO
A Ferdinando di Castiglia successe Alfonso V detto il Magnanimo nel 1416 e la Sicilia fu degradata da regno indipendente a provincia spagnola. Egli cercò di abbattere la potenza dei baroni richiamando in vita le istituzioni comunali, fondò l’Università di Catania nel 1434 e diede un notevole impulso alla cultura.
Gli successe nel 1458 Giovanni d’Aragona, il cui regno fu caratterizzato da sommosse popolari dovute alla carestia a da odi baronali. Nel frattempo si erano fatti frequenti gli assalti dei Turchi alle coste siciliane e si distinse per eroismo un certo Antonio Duro da Messina.
Nel 1479 a Giovanni successe Ferdinando il Cattolico, che sposò Isabella di Pastiglia e unificò la Spagna, cacciandone i mori. Sotto il suo regno fu introdotto in Sicilia il Sant’Uffizio che perseguitava gli eretici. Nel 1492 fu eseguito l’editto che ordinava l’espulsione degli ebrei, con grave danno per l’economia isolana.
Durante il Quattrocento la Sicilia fu centro culturale, diede i natali al più grande pittore del tempo, Antonello da Messina, a Costantino Lascaris che a Messina fondò una scuola di greco rinomata in tutto il Mediterraneo, ad Antonio Beccatelli detto il Panormita, umanista di fama, a Giovanni Aurispa da Noto, che fu professore di greco a Costantinopoli e illustre umanista.
LA SICILIA DEL CINQUECENTO
Ferdinando il Cattolico morì nel 1515 e gli successe il figlio quindicenne Carlo V (quello sui cui possedimenti non tramontava mai il sole). A causa dei contrasti tra il vicerè Moncada e il Parlamento siciliano, ci fu una sollevazione popolare contro i soldati spagnoli che per la sua asprezza fu chiamata “secondo Vespro siciliano”. Il giovane re sostituì il vicerè con Ettore Pignatelli di Monteleone: in questo periodo la flotta siciliana difese dagli assalti turchi Malta e Pantelleria, e dei tredici campioni della famosa disfida di Barletta (1503) due erano siciliani: Guglielmo Albimonte e Francesco Salamone da Sutera.
Le vicende tormentate della Sicilia, le rivolte tra i baroni, il governo spesso vessatorio dei vicerè, carestie e pestilenze, diffusero uno stato d’animo luttuoso e ribelle, che culminò con una congiura (1517) che avrebbe dovuto dare alla Sicilia un governo repubblicano: la guidava Gian Luca Squarcialupo da Pisa. Fu imprigionato il vicerè e cacciato l’odiato Sant’Uffizio. La rivolta fu soffocata nel sangue ma fu seguita da un altro tentativo nel 1523: Anche stavolta i colpevoli furono puniti duramente.
Nel frattempo continuò la guerra contro i Turchi che infestavano le coste siciliane: la flotta siciliana assieme a navi genovesi, maltesi e napoletane conquistò Tunisi e riportò una magnifica vittoria. Carlo V fu incoronato re di Sicilia nel 1535 a Palermo. Gli successe Filippo II di Spagna, dopo che l’imperatore aveva abdicato in suo favore nel 1556: egli non venne mai in Sicilia e il potere fu esercitato dai vicerè, che continuarono a lottare contro i pirati. L’episodio più notevole fu la battaglia di Lepanto (7 ottobre 1571 – da allora dedicato alla Madonna del Rosario protettrice dell’impersa) nella quale la flotta cristiana riunitasi a Messina, formata da navi Siciliane, maltesi, veneziane, genovesi, sabaude e sarde, guidata da Giovanni d’Austria, vinse con il decisivo apporto dei siciliani.
I pirati barbareschi (saraceni o musulmani) venivano spesso a saccheggiare campi e città e a fare schiavi. Alcuni vicerè in tempi diversi si preoccuparono di munire le coste siciliane di torri d’avvistamento, per respingere tempestivamente gli assalti. Di queste torri è ricco il litorale ionico: a Santa Teresa ce n’erano sei, una ben conservata si trova a Roccalumera.
IL SEICENTO IN SICILIA
Morto Filippo II di Spagna nel 1598 (dopo 42 anni di regno), gli successe il figlio Filippo III. Per la Sicilia il XVII sec. fu un periodo molto duro: le tasse sempre più opprimenti, il Sant’Uffizio divenuto organo di oppressione politica e religiosa, le numerose calamità (pestilenze e carestie), l’eruzione dell’Etna (1669) che distrusse 11 paesi nella zona sud orientale del vulcano e parte di Catania, il terremoto del 1693, che colpì Noto e Ragusa (a Catania morirono 18.000 persone su una popolazione di 27.000 abitanti), il brigantaggio che non si riusciva a sconfiggere, furono i mali che afflissero l’isola nel ‘600.
Le infelici condizioni dell’isola generarono moti rivoluzionari che ebbero carattere internazionale come la rivoluzione di Palermo nel 1647 (in concomitanza con la sollevazione di Masaniello a Napoli) e quella di Messina del 1674-78 nella quale intervennero gli eserciti di Luigi XIV. Dopo la partenza dei Francesi da Messina, la città si impoverì a causa della punizione subita dagli spagnoli, che le tolsero i privilegi che l’avevano fatta gareggiare con Palermo per il titolo di capitale della Sicilia. Con il bronzo delle campane furono fabbricati i cannoni della cittadella, che rappresentò per secoli la tirannide spagnola.
LA SICILIA NEL SETTECENTO
Il dominio spagnolo terminò in Sicilia nel 1713, con il trattato di Utrecht che assegnava l’isola a Vittorio Amedeo di Savoia. Egli regnò fino al 1720: seguì la dominazione austriaca fino al 1734 e infine quella borbonica che si concluse con l’unità d’Italia nel 1860.
Il dominio sabaudo si distinse per il fiscalismo e per gli incarichi di potere affidati solo a sabaudi. Inoltre, Vittorio Amedeo chiamò a Torino l’architetto messinese Filippo Juvara, che arricchì Torino di splendidi monumenti, come la basilica di Superga e il castello di Stupinigi.
A causa del malcontento generale la Spagna riconquistò facilmente la Sicilia, ma dovette cedere all’Austria con il trattato dell’Aja e nel 1720 Carlo VI d’Asburgo, imperatore d’Austria divenne re di Sicilia mentre i Savoia diventavano re di Sardegna.
Neanche gli austriaci lasciarono un buon ricordo. Nel 1734 Carlo di Borbone, figlio del re di Spagna Filippo V, si impadronì del regno di Napoli e conquistò la Sicilia. Carlo III alleggerì il peso dei tributi, favorì il commercio, limitò i poteri dell’Inquisizione. La lotta contro il baronaggio siciliano per uscire dal feudalesimo politico generò la “questione meridionale”. Carlo regnò fino al 1759, quando divenne re di Spagna: gli successe il figlio di nove anni Ferdinando.
Le idee della Rivoluzione francese si diffusero anche in Sicilia e il re Ferdinando IV fu scacciato da Napoli per opera dei giacobini francesi. Egli si stabilì in Sicilia e rientrò a Napoli dopo quattro anni con l’aiuto dell’ammiraglio Nelson. Ritornò in Sicilia cacciato da Gioacchino Murat nel 1806 e concesse la Costituzione ai Siciliani nel 1812. un posto importante durante il regno di Ferdinando ebbe la regina Maria Carolina, essa si impose al marito che si interessava più alle partite di caccia che agli affari politici.
LA SICILIA NELL’OTTOCENTO
Alla restaurazione Ferdinando abolì ogni forma di autonomia, anzi il suo regime poliziesco e il disprezzo per la cultura avevano diffuso un grave malcontento. Ciò insieme ai fattori politici, sociali ed economici fu alla base delle insurrezioni del 1848, quando la Sicilia in gennaio aprì il periodo delle rivoluzioni che infiammò l’Europa.
Nel 1859, morto Ferdinando, gli successe il figlio Francesco II (detto Franceschiello), di scarsa energia e di intelligenza limitata. Il nuovo re respinse la proposta di un’alleanza con il Piemonte e si rifiutò di concedere riforme liberali. Del nuovo re si diceva:
Ciccia nascìu – sò matri murìu / Ciccia si maritàu – so pàtri cripàu / Ora ca è re – viditi chi c’è. Perché era considerato uno iettatore.
Nel frattempo anche in Sicilia si diffondevano le idee mazziniane e cavouriane, che alla fine prevalsero, sicchè i patrioti liberali miravano all’annessione al Regno d’Italia. Francesco Crispi e Rosolino Pilo lavoravano in tal senso e Garibaldi si diceva pronto a intervenire in Sicilia. La fine della II guerra d’indipendenza con l’armistizio di Villafranca fece cadere le speranze, ma il 4 aprile del 1860 a Palermo scoppiò la rivolta guidata da Rosolino Pilo, alla quale seguì l’impresa garibaldina.
Il 5 maggio 1860 i vapori “Lombardo” e “Piemonte”, con l’aiuto non dichiarato di Cavour, salparono da Quarto con poco più di 1000 uomini in camicia rossa. Le due navi erano comandate da Giuseppe Garibaldi e da Nino Bixio. Sbarcati a Marsala, si diressero a Salemi dove Garibaldi assunse la dittatura in nome di Vittorio Emanuele II. Dopo le battaglie di Calatafimi e Milazzo, la Sicilia era tutta in rivolta.
La piemontesizzazione delle regioni italiane annesse al Regno d’Italia, deluse i Siciliani, frustrando nuovamente le aspirazioni autonomistiche siciliane, le nuove tasse impoverirono ulteriormente l’isola a economia prevalentemente agricola e latifondista, e, cosa peggiore, i siciliani non sopportarono la coscrizione obbligatoria. Ciò fu classificato come banditismo e una vera e propria guerra fu scatenata per domare i renitenti. L’estrema povertà dei contadini diede al fenomeno dell’emigrazione, specialmente verso gli USA e l’Australia, con lo svuotamento di interi paesi, specie nell’entroterra.
IL NOVECENTO
Il ‘900 si apre in Sicilia con il terremoto che devastò Messina e Reggio Calabria (1908), dopo la prima guerra mondiale nella quale si distinse l’eroe Luigi Rizzo, nel 1919 don Luigi Sturzo, sacerdote di Caltagirone fondò il Partito popolare, che sarebbe diventato poi la DC. In Sicilia, il primo Fascio di combattimento fu fondato nel 1919 a Ragusa Ibla, da uno studente.
La dittatura in Sicilia durò dal 1922 al luglio del ’43, quando sbarcarono gli angloamericani. Durante la seconda guerra mondiale, tutta l’isola fu sottoposta a bombardamenti che distrussero ponti e strade, il tesseramento annonario provocò il nascere del “mercato nero”, (un giovane, certo Salvatore Giuliano da Montelepre, veniva fermato da due Carabinieri mentre trasportava grano di contrabbando, ma con se aveva anche un revolver…), alcune decisioni fasciste poco gradite fecero rinascere lo spirito separatista, con i gruppi “Sicilia e libertà” e con il MIS, Movimento per l’indipendenza della Sicilia capeggiato dell’on. Finocchiaro Aprile. Il Movimento non ebbe mai successo a causa della mancanza di organizzazione, ma pose la questione siciliana sul tappeto politico dell’Italia post-bellica e veniva approvato con il D.L. n. 455 del 15 Maggio 1946 lo Statuto della Regione Siciliana.
– Redazione.
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