Storie di Sicilia
STALINGRADO 1941. LA BATTAGLIA CHE ROVESCIO’ LA GUERRA (Racconti)
Attaccata a sorpresa la Russia nel giugno del 1941, e conquistatane gran parte con la stessa rapidità con cui un anno prima avevano occupato Olanda, Belgio e Francia, le divisioni corazzate dei nazifascisti furono arrestate nel settembre del 1942 dal rigidissimo inverno e dalla disperata resistenza dell’esercito e dello stesso popolo russo alle soglie di Leningrado, di Mosca e di Stalingrado.
Fu in quest’ultima città che allora si combattè la prima battaglia della riscossa russa, alla quale seguirono difficili ma continue vittorie fino al cuore della Germania.
Stalingrado, che si estende per circa quaranta chilometri sulle rive del Volga, ridotta ben presto dai bombardamenti tedeschi a un sol cumulo di rovine, vide allora soldati, operai e cittadini, uomini e donne, combattere contro l’invasore casa per casa, strada per strada, fra le macerie e gli scoppi continui dei proiettili e delle bombe, in un inferno di fuoco e di sangue nel quale morirono centinaia di migliaia di uomini.
Le truppe tedesche, comandate dal generale von Paulus, accerchiate dal contrattacco russo, sarebbero potute sfuggire all’annientamento rompendo il cerchio di fuoco con una sortita verso ovest, ripiegando cioè verso posizioni meno avanzate, ma gli ordini di Hitler furono di resistere e di mantenere il posesso di Stalingrado a tutti i costi.
LA NOTTE NERA DI NATALE
Per fortuna la notte era buia. La più nera di tutte. La luna stava dietro le nubi ed era molto freddo. Il silenzio era pesante come la notte. Lontano, al di là delle nubi, dietro di noi, si vedevano i bagliori della battaglia e ne veniva un rumore come di ruote sull’acciottolato. Stavo fuori della trincea con un mitragliatore imbracciato e scrutavo il buio verso le posizioni dei Russi. Anche da loro era silenzio: pareva non esistessero più. “Se attaccano adesso?” pensavo. E fremevo. Un alpino che avevo messo all’imbocco del camminamento venne a dirmi: “E’ passata la squadra di Moreschi, tutto bene”. “Vai ad avvisare Baffo”, dissi. Scrutavo il buio stringendo il mitragliatore e tremavo. “Sergentmagiù (1), è passato il Baffo, tutto bene”. “Vai ad avvisare la pesante (2)”. “E’ passata la pesante, tutto bene”. “Parla piano, vai ad avvisare Minelli”. Guardavo avanti il fiume nero. Non tremavo più. “Preparatevi anche voi”. Sentivo il rumore degli uomini di Pintossi che si preparavano: parole mormorate in un soffio, rumore di zaini che venivano caricati in spalla. “Sergentmagiù, possiamo andare?”. “Vai, Pintossi, e non far baccano”. “E tu non vieni?”. “Vai, Pintossi, io verrò”. Mi si avvicinò l’alpino dalla barba secca e rada. “Non vieni?” disse. “Vai”.
Ero solo. Dalla trincea sentivo i passi degli alpini che si allontanavano. Erano vuote le tane. Sulla paglia che una volta era il tetto di un’isba (3) giacevano calze sporche, pacchetti vuoti di sigarette, cucchiai, lettere gualcite: sui pali di sostegno erano inchiodate cartoline con fiori, fidanzati, paesi di montagna e bambini. Ed erano vuote le tane, vuote di tutto, ed io ero come le tane. Ero solo nella trincea e guardavo nella notte buia. Stringevo forte il mitragliatore. Premetti il grilletto, sparai tutto un caricatore; ne sparai un altro e piangevo mentre sparavo. Saltai nella trincea, entrai nella tana di Pintossi a prendere lo zaino. Vi erano delle bombe a mano e le gettai nella stufa. Levai ad altre bombe le due sicurezze e le posai piano sul fondo della trincea. Mi incamminai verso la valletta. Incominciava a nevicare. Piangevo senza sapere che piangevo e nella notte nera sentivo solo i miei passi nel camminamento buoi. Nella mia tana, inchiodato ad un palo, rimaneva il presepio in rilievo che mi aveva mandato la ragazza per il giorno di Natale.
Mario Rigoni Stern: Il sergente della neve, Einaudi, Torino.
LA RITIRATA DEI CENTOMILA
Infiliamo la pista che va sullo stradone principale, ci inseriamo nella bolgia. Colonne impazzite di autocarri, carriaggi, slitte, salmerie: italiani, tedeschi, che urlano, spingono, bestemmiano, sostano, corrono. Siamo come i sassi di un torrente in piena, rotoliamo urtandoci duramente. Incrociamo colonne, ne tagliamo altre, altre incrociano e tagliano la nostra. Muoviamo appena, oppure corriamo: è un tiramolla, un urtarci, un spingerci, un confonderci continuo. Attorno, Isbe (3) che bruciano, scoppi, bagliori, razzi che solcano il cielo oltre le fiamme degli incendi. Nella tormenta ristagna un forte odore di bruciato, un fumo denso, che il vento non riesce a disperdere.
Sostiamo per oltre un’ora, tanta è la confusione. Le colonne sono troppe e vogliono marciare a tutti i costi. Ancora magazzini che ardono, isbe che saltano in aria, depositi che esplodono. Il vento, correndo da un’isba all’altra, unisce i tetti di paglia, porta il fuoco da ogni parte. Comincia ad albeggiare, la marcia riprende.
Il passaggio è obbligato, largo quanto una pista. Fuori, nei campi, si affonda fino al ginocchio. Dozzine di autocarri, slitte, muli sembrano giocattoli rotti, abbandonati, dopo un gioco finito male. C’è un’ampia striscia nera di cose buttate, maschere antigas, vestiario, coperte, armi, rottami di ogni genere.
All’orizzonte, verso il Don, brevi colonne di ometti che sfilano. Forse sono italiani, i ritardatari, gli sbandati, i dimenticati. Un centinaio di metri, poi la pista cammina in trincea. Dio che orrore! È il macello del 16 gennaio. Noi eravamo ancora in linea; qui, i carri armati russi schiacciavano una colonna in marcia. Ungheresi, tedeschi, italiani, stritolati. Non basta farsi forza; gli occhi restano larghi, sbarrati, raccolgono, si riempiono. Un artigliere alpino, steso lungo la pista, intatto com’è, sembra vivo. Mi fermo, mi specchio nel suo volto. Qui, dove pensare agli altri non è umano, trovo stranamente la forza di pensare agli altri. Lo scuoto, rinviene. Due alpini mi aiutano, lo sorreggiamo, non ho pace finchè non lo vedo in mani sicure, con il suo reparto.
Nel villaggio i morti sono molti, quasi tutti italiani. Ieri, una nostra colonna motorizzata dei servizi subì un attacco di sorpresa: si contano a dozzine gli autocarri e le ambulanze sfasciate. Numerosi anche i civili e i partigiani accoppati, fra le isbe.
Appena fuori del villaggio, lungo una pista secondaria, due aerei russi mitragliano e spezzonano, da bassissima quota, una colonna di autocarri e salmerie: sbandamento, autocarri in fiamme. Sento urlare in tutti i dialetti.
Le colonne continuano a premere, a frammischiarsi, a urtarsi. Siamo sempre fermi, si gela. Taglio una coperta a strisce, mi fascio i piedi. Salvare i piedi è troppo importante, ho la fortuna di avere ancora le scarpe, anche se la marcia sarà molto, molto più faticosa, i piedi, almeno, saranno salvi. Nelle soste trovo la forza di muovere i piedi di continuo, per provarne la sensibilità, per tener viva la circolazione. Molti hanno già buttato le scarpe: con i piedi avvolti in coperte è come se camminassero scalzi sulla neve. I malloppi (4) di coperte, duri come il ghiaccio, non coprono che cancrena. A guardarci l’un con l’altro è come se ci specchiassimo. Una coperta ci copre il capo e le spalle; chi l’ha sacrificata per fasciarsi i piedi, sembra svestito.
Poco lontano hanno pestato una bomba a mano. Un ferito chiede aiuto, nessuno lo soccorre, soltanto il gelo gli sarà amico: morirà nel sonno dell’assideramento senza troppo soffrire. Forse, chi gli è accanto lo trascinerà fuori dalla pista, dalle slitte, dai muli, dalle scarpe chiodate: nulla di più. Di là potrà gridare, urlare, nessuno lo sentirà.
Nuto Revelli: La guerra dei poveri, Einaudi, Torino.
1) Sergentmagiù: Sergente maggiore (dialettale); 2) La pesante: la squadra addetta alla mitragliatrice; 3) Isba: la tipica abitazione contadina russa, col tetto di paglia e ad una sola stanza; Malloppi: avvolgimenti, fasciature.
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