Storie di Sicilia
STORIE DI ITALIANI IMMIGRATI. QUANDO ERVAMO POVERI E “MAFIOSI” (parte terza)
“Sotto terra si parla la nostra lingua”, diceva lo scrittore Giovanni Arpino riferendosi al Belgio, alla Francia, alla Germania, dove per almeno un secolo i nostri emigrati morirono sfiancati, in miniere e cucine. Allora, in Europa, negli Stati Uniti, in Brasile, Argentina, Australia, gli indesiderati eravamo noi. Oggi lo sono, nel nostro Paese, albanesi, rumeni, cinesi, libici, eritrei, egiziani. Almeno dalle ultime tre provenienze etniche, a centinaia stipati sulle cosiddette “carrette del mare”, sbarcano clandestini (se non muoiono durante il tragitto), quasi ogni giorno a Lampedusa, a Siracusa, a Favignana, a Catania. In Sicilia, dobbiamo dire che, nonostante le difficoltà che un tale flusso migratorio comporta, la Guardia costiera, le Forze dell’ordine e le associazioni del volontariato, fanno del proprio meglio così come i residenti, i quali offrono loro quel che possono. Sono siciliani, che forse ricordano…
Da metà dell’800, praticamente per un secolo, ondate di emigranti provenivano dall’Italia settentrionale (Piemonte, Lombardia, Veneto, anche Emilia Romagna e Liguria), dal centro (alcune province toscane, le Marche), dalle Regioni meridionali (praticamente tutte, sia pure in grado diverso e con punte minime in Puglia). Per lo più manovalanza non specializzata, pochi i gruppi addetti a mansioni specifiche; livello culturale basso, con vistose eccezioni dei perseguitati politici.
“In un primo tempo, mèta preferita è l’America Latina, percepita anche per ragioni di lingua, come meno ostica rispetto a quella del nord. In Argentina e Brasile, sovente privilegiando località dove altri compaesani si erano già stabiliti, emigrano anche comunità intere, con prete e sindaco. Nel deserto, i contadini veneti fanno fiorire frutteti e giardini (come quelli famosi di Rio Negro) e fondano agglomerati denominandoli Nova Venezia, Nova Bassano, Nova Treviso e così di seguito. Anelano a diventare proprietari terrieri; sovente ci riescono, magari dopo essere passati nelle fazende, a coltivare il caffè in condizioni disumane. I piemontesi confluiscono in gran numero a Mendoza dove tutt’oggi producono vino. Giovandosi dell’inversione delle stagioni, contadini di tutt’Italia lavorano nei campi sei mesi là e altrettanti qui (in Argentina li chiamavano le golondrinas, rondini). Il commercio si avvia con gli armacen, piccolissimi empori dove si può trovare di tutto (ben comprese le specialità del luogo di origine) e che, sovente, sono all’origine di grandi fortune”.
Numerosi abitanti locali ci definivano “avidi accaparratori delle ricchezze nazionali”, ci accusavano di incrementare criminalità e prostituzione. In Argentina, dopo che una banda di ragazzi italiani capeggiati da El petiso orejudo (il monello con le orecchie a sventola, tale Gaetano Godino, genovese) aveva taglieggiato, ucciso, rapinato, sui giornali si potevano leggere frasi di questo tipo: “La scienza ci insegna che insieme col carattere intraprendente, intelligente, libero, inventivo e artistico degli italiani, c’è in loro il residuo di un’alta criminalità di sangue”. Erano tempi di Lombroso, le cui tesi, secondo alcune riviste locali di antropologia, trovavano conferme proprio esaminando gli italiani.
In America, a sud come a nord, le metropoli e i grandi lavori infrastrutturali (ferrovie, strade, grandi acquedotti) attraggono soprattutto la manovalanza non specializzata.
Nel mondo cominciavano a diffondersi le equazioni “Italiano = pizza = mafia” e “Italiani tutti mafiosi”. In Lusitania, ai nostri bambini era vietato frequentare le scuole dei bianchi. A New Orleans, l’assassinio di un dirigente della polizia fu immediatamente seguito dall’arresto di 11 italiani i quali poi vennero ufficialmente riconosciuti innocenti, ma la folla inferocita li fece a pezzi.
In Europa, a quel tempo, i nostri emigranti erano pochi e appartenevano a categorie ben precise: bambini acquistati in zone miserrime e mandati a soffiare il vetro nelle vetrerie specialmente francesi (occorrevano polmoni freschi, possenti, di quelli che si hanno fino all’adolescenza), circensi che se ne partivano con organetti e scimmietta, lustrascarpe. Altro filone particolare, in genere dal Lazio e dalla Toscana verso Corsica e Francia, le balie (anche asciutte – oggi le chiamano tate): integerrime non foss’altro per esigenze di lavoro, venivano invece disprezzate dalla società di allora perché partivano sole, per guadagnare soldi, lasciando gli uomini a casa.
Prima battuta d’arresto, dell’emigrazione, la guerra del ’15-’18; poi intervennero leggi restrittive di Stati Uniti, Brasile, Argentina, quindi il fascismo che valorizzò l’incremento demografico. Fuori confine specie in Europa e in Francia, finirono più che altro gli ebrei (dopo il 1938), gli antifascisti, i militanti della sinistra. In Francia si tuonava “Italiens, basta mangiare il nostro pane” mentre il quotidiano Le jour chiedeva al Governo di allontanare “questa merce nociva e pertanto adulterata, che si chiama operaio italiano”. Contro l’“invasione” dei bellunesi e bergamaschi, la Svizzera varava leggi che imponevano l’immediato ritorno a casa degli stagionali, appena finito il lavoro.
In Europa, come oltre Atlantico si diceva: “gli italiani puzzano”. Probabilmente era vero, è difficile odorare di buona lavanda quando si ha un solo vestito. E se per caso una ragazza wasp (white anglo saxon protestant) si innamorava di un italiano cattolico, la reazione di tanti genitori era simile a quella di oggi di fronte ad una figlia che esce con un musulmano. “Le ondate migratorie, riprendono nel secondo dopoguerra, dissanguando prevalentemente il Sud. Sono anche gli anni dell’immigrazione interna, verso il triangolo industriale.
A Torino, in quegli anni, il quartiere dormitorio approntato per gli operai meridionali era chiamato “Corea”, mentre su molti palazzi si leggeva: “Non si affitta ai meridionali”. Nel ’48, quando si respira il terrore che l’Italia diventi comunista, alcuni trattati (con qualche Paese europeo, e anche con l’Australia) scambiano manodopera con merce. Con il Belgio, ad esempio, 250mila italiani in cambio di carbone; finì che crollarono alcune miniere (Marcinelle è del 1956) e di carbone ne arrivò ben poco. Mèta ambita anche la Germania, industria automobilistica e ristorazione, settore diventato ormai classico per gli italiani all’estero. I flussi migratori raggiungono il massimo negli anni ’60 poi vanno scemando finchè nel 1973, l’Italia viene dichiarata ufficialmente Paese di immigrazione e non più di emigrazione. Una svolta storica. Appena qualche decennio è passato, eppure sembra che abbiamo dimenticato tutto.
27 Agosto 2013
C’ERA UNA VOLTA IN AMERICA. Le musiche del film (di Ennio Morricone).
NOTA: Notizie tratte dal mensile “50 & PIU'” di Giugno 2002. Nella foto, lo sbarco di immigrati italiani in Venezuela.
GLI ALTRI EPISODI:
ITALIA ANNI 50-60: DALLA SPERANZA AL “MIRACOLO ECONOMICO” (parte prima)
ITALIA ANNI 50-60: “QUANDO GLI EMIGRANTI DISPERATI ERAVAMO NOI” (parte seconda)
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