Storie di Sicilia
“VITA ‘I GHIANCHÈRI” (VITA DA MACELLAI) PARTE SECONDA
Attenzione! Questo racconto, che ho cercato di arricchire con termini in siciliano parlato, forse, ad un certo punto potrebbe non essere adatto a… stomaci delicati.
Torniamo a parlarvi di antichi mestieri ed in particolare del macellaio, (‘u ghianchèri), che pur essendo sopravvissuto come mestiere, in molti paesi e città di Sicilia ha radicalmente cambiato fisionomia. Lavori sporchi: Oggi esistono programmi tv che tentano di stupire o quantomeno di incuriosire la gente, parlando di “lavori sporchi” o di “sporcarsi le mani” o di cibi a base di interiora di vitello o di trippa od altro molto buoni da gustare, ma forse per qualcuno queste non sono certo novità. Anzi.
Ricordi: Avevo poco più di otto anni, quando mio padre mi chiese se volevo venire con lui al macello comunale il martedì successivo, (quel fabbricato che sotto mutate e ristrutturate sembianze oggi è noto come “Centro Sociale Giovanni Paolo II”). Lo fece, più che altro perchè assistessi a quello che faceva durante la macellazione del bestiame: buoi, vitelli, maiali, pecore, e perché mi rendessi conto di persona dell’ambiente. Avevo già il mio fodero realizzato artigianalmente come quello di un vero macellaio professionista, per riporvi il coltello, con apposita cintura, e stivali (in gomma, però), neanche fossi John Wayne.
Negli anni, accompagnai “il macellaio” anche nei mattatoi di Casalvecchio Siculo, di Furci, di Santa Teresa di Riva, di Scaletta Zanclea e, di Fiumedinisi.
Ci si alzammo presto quella mattina della prima volta, come era la prassi “del macellaio” che, per di più ci teneva ad arrivare primo o fra i primi per non perdere il posto. Più tardi sarebbero arrivati i commercianti coi loro camion che avrebbero scaricato le bestie, operazione non facile, soprattutto quando si trattava di tori feroci ed infuriati. La cinta di mura attorno al macello di Roccalumera venne costruita solo molti anni dopo, ossia dopo che alcuni tori erano perfino scappati, tanto che uno di questi fu recuperato mentre stava… facendo il bagno in mare.
No, non erano scene comiche, anche se a raccontarle così, può sembrare che dopo tutto, si trattasse solo routine di gente comune. Di semplice “vita da macellai”.
LA GIORNATA DELLA MACELLAZIONE
La mattina, aperto il cancello, alzate le saracinesche, il custode del macello apriva anche la camera del veterinario che sarebbe arrivato di lì a poco. Era il momento di entrare. Legavamo le catene delle carrucole affinché il toro da macellare entrando nella postazione non vi si impigliasse, il macellaio si faceva consegnare dal custode la apposita enorme pistola, la caricava con una piccolissima cartuccia e, appoggiata alla testa dell’animale premeva il grilletto. Bum! Un cilindro d’acciaio gli entrava fin dentro il cervello e ne riusciva in una frazione di secondo.
La bestia, qualunque fosse la sua stazza, cadeva al suolo di schianto. Subito il macellaio gli dava una coltellata nella nuca spezzando il midollo spinale e dunque si affrettava a scannare l’animale.
Legato un piede anteriore con un pezzo di corda, l’aiutante muoveva ritmicamente l’arto premendo al contempo con un piede sul fianco della stessa bestia, (cianpiàri), così favoriva la fuoriuscita di tutto il sangue dal taglio praticato alla gola. Quindi, il macellaio scorticava la testa e staccatala dal resto del corpo, la lavava fuori e dentro la cocca per poi appenderla ai ganci di fronte alla sua postazione.
Adesso era il momento di scorticare la pelle e poi tagliate via le zampe posteriori, appendendo la bestia sui due ganci delle carrucole a catena e iniziando a tirare su a più riprese. Lavoro di braccia ma anche occhi sempre ben aperti mentre entravano altri animali, venivano esplosi altri colpi di pistola, cadevano altri buoi a terra, scorreva altro sangue a fiumi, mentre i macellai giravano in quel trambusto coi loro strumenti da lavoro in mano che certo matite non erano, e spesso proferivano frasi che non definireste versi poetici.
Qualche volta, “il macellaio” mi gridava di uscire fuori dal cancello, perché quello che stava per essere tirato dentro era un toro molto grosso e pericoloso. Sarei tornato quando fosse caduto a terra inerme.
E grida di bestie, di maiali scannati, mentre di volta in volta imparavo a scorticare da dietro la pelle del vitello, e giù a scendere dalla coda per la colonna vertebrale senza fare tagli o danni, mentre il macellaio apriva quella enorme pancia dalla quale tirava fuori afferrandoli dalla trachea, polmoni e cuore e fegato insieme e poi staccava via la milza. Tirava fuori l’enorme stomaco (‘a vèntra) della bestia, la tagliava via ed io andavo a svuotare fuori i parecchi chili del suo contenuto maleodorante. Lavata, ‘a vèntra, si passava al (centu peddi), cento pelli, (chiamato così, perché composto al suo interno da una miriade di pelli sottili), e una volta scorticata per intero, era il momento di tirare fuori l’intera pelle, (‘u còriu). Fra i tanti, ne ricordo a chiazze rosse e bianche, bianche pezzate di nero, di marroni, di beige, a seconda della razza di appartenenza: Simmental, Normanna, Limousine, Siciliana, ecc.
Spaccato in due con la pesante mannaia (‘u quattiatùri), ogni bue veniva poi suddiviso in quattro quarti e quindi appeso sui ganci a muro, in attesa che dopo la visita del veterinario fosse caricato, trasportato sulle spalle dagli stessi macellai sul trasporto carni, e quindi portato alle rispettive macellerie assieme al resto.
LA TESTA DEL BUE APPESA IN VETRINA
Appena arrivati, scaricati ancora a mezzo spalle dal macellaio. Quasi subito, i quarti anteriori venivano disossati dalle costole e poi sezionati per grandi blocchi. I vari tagli, (vedi: costate, punta di petto, retrocoscia, noce, tudisco, filetto, ecc.), sarebbero stati suddivisi e selezionati nei giorni seguenti. La testa del bue, trasportata anch’essa assieme al contenitore delle interiora (‘a quaddumi), veniva appesa nella vetrina, oppure veniva appeso (‘u canaròzzu), quale segnale per la gente che la carne fresca era arrivata.
INDOSSAVO IL GREMBIULE (fantàli o panannànza).
L’arte del disossare, a dieci o undici anni fu un lavoro – alquanto pericoloso – che iniziai a fare io stesso. Mentre per scorticare la bestia serviva un coltello corto dalla lama curva, per disossare i quarti anteriori usavo un coltello corto a lama dritta e sottile, nonchè un coltello corto a lama spessa e robusta e… un gancio in acciaio.
Si incideva lungo l’osso e sui lati dello stesso e, forzando con il coltello robusto fra osso e cartilagine, lo si tirava via aiutandosi tirando col gancio per poi separarlo dal seguente lungo la colonna vertebrale. E via di questo passo dalla costola più lunga fino alla più corta, vicino al collo.
Una volta, il macellaio fece notare la buona fattura del mio lavoro di giovane apprendista, eseguito a regola d’arte e che non provocava danni alla carne, ma il cliente rispose: “a me pare un lavoro di forza e di fatica”. Fatica o no, l’imperativo era per me la scuola e lo facevo solo se in vacanza.
‘A GHIANCA – La classica ghiànca (quella che a Palermo viene ancora denominato “à Vuccirìa”, che è anche la famosa ed omonima opera pittorica di Renato Guttuso, è un mercato all’aperto), quando ero bambino era generalmente costituita da una stanzetta nella quale trovava posto una piccola cella frigorifera, un ceppo di legno e un bancone con sopra una bilancia a pesi.
La figura del commerciante che acquistava sin nelle case private di campagna, (dove molti all’epoca allevavano nell’arco di un anno una o più bestie), la figura del “macellatore” e quella del venditore di bottega (ghianchèri, appunto), erano al tempo inscindibili. In un’epoca in cui i mezzi di trasporto a motore, ergo camion, erano alquanto rari, non capitava di rado di vedere il macellaio trasportare il toro o il maiale e la pecora a piedi lungo quello che oggi chiamiamo lungomare, ma che fino a non moltissimi anni fa non era altro che un polveroso o fangoso seppur romantico sentiero costeggiato da tamerici e palme.
Il personaggio del mediatore (’u sinzàli) di paese, il rito dei racconti di storie vere ed epiche o fantastiche, durante la trattazione delle compravendite, facevano parte di un quadro nel quale anche i sapori e la genuinità di cibi e di rispetto interpersonale non potevano mancare.
“Il macellaio” rischiava spesso la vita comprando le bestie pericolose che altri non volevano proprio per quello, talvolta puzzava di sterco di stalla o si macchiava di sangue di animali, urlava, tirava, legava e scioglieva animali, e poi, quando indossava il camice bianco o blu nella sua bottega, dialogava serenamente con i suoi clienti mentre affilava il coltello con l’affilatore (l’azzarìnu), od affettava il taglio di carne per farne bistecche o insaccava le salsicce che di lì a poco avrebbe pesato e venduto, abilmente coadiuvato dalla moglie lesta far di conto e gentile di modi.
IL MITO E LE LEGGENDE EROICHE
Esisterebbero perfino storie incredibili da raccontare, di macellai che sono andati a lavorare al macello fin oltre gli ottant’anni mostrandosi ancora forti e vigorosi tanto da trasportare (mmuttàri) quarti sulle spalle, oppure romanzesche fantasie come quella di un macellaio che stese un bue sferrandogli un pugno in testa, mentre, magari era solo una vitella e per colpire ci si era serviti di un pugnale, del macellaio che cade nella grande vasca per irrigazione (gèbbia) insieme al toro che stava tirando, e pur non sapendo nuotare ne esce indenne.
UN TORO CHE FIUTO’ LA MORTE
Era un martedì come tanti, fortunatamente era stata già realizzata la cinta muraria attorno al macello, mio padre stava per tirare un toro all’interno del macello, quando la bestia s’imbizzarrì. L’animale era legato a varie corde tenute sull’altra cima da altrettanti macellai che pensarono bene di legarle ad un grosso albero di ulivo. Ma in un’attimo, dimenandosi e strattonado con la testa ne spezzò diverse, tanto che, io (come altri), scappai fuori dal cancello… ma poi rimasi lì.
Rimaneva una sola corda a trattenere la belva infuriata, la tenevamo in tre, ma… bastò uno strattone dell’animale per farmela scorrere fra le mani come fosse una sega elettrica. A quel punto, non vidi più il toro che scappò via, ma non vidi più neanche mio padre. Dov’è, gridai. Mi risposero: dev’essere dentro il macello, il toro sarà dietro il recinto. Passò un’attimo e la belva infuriata ritornò ad attaccare. Erano ormai tutti fuori, qualcuno era salito sul muro di cinta, ma ecco che il toro si alzò sulle zampe posteriori con la bava alla bocca e gli occhi infuocati. Mai avevo visto una tale scena, mai avevo ascoltato un urlo lacerante di una tale bestia inferocita. Una montagna di muscoli, sollevandosi, arrivò a spingere con il muso una persona giù dal muro, fortunatamente costui cadendo all’esterno non si fece quasi nulla.
Dopo un po’ vennero i carabinieri armati, gli spararono, una prima volta puntando alla testa, ma il toro si mosse e la pallottola gli forò il muso, una seconda volta, il grido aumentò ancora, il secondo proiettile e il terzo ed il quarto, gli penetrarono la spalla e poi ancora il cervello dell’animale che si accasciò al suolo. Adesso potevo cercare mio padre, era veramente riuscito a mettersi al sicuro? Assolutamente no! Seppi dopo, che era stato inseguito fin dove la cinta di mura portava ad un vicolo senza via d’uscita. Ma, si era salvato. Come aveva fatto? Una finestra che dava luce ai locali del veterinario, miracolosamente e per la prima volta era stata aperta da Bruno, il custode del macello. Era abbastanza alta, ma mio padre aveva avuto lo scatto della paura e era saltato, senza nemmeno avere il tempo di pensare che, quei due coltelli che portava appesi alla cintola, nella caduta, sarebbero potuti uscire dal fodero e infilzarlo. Mi raccontò dopo, che la bestia lo attese un po’ prima di andare via da là dietro, prima di tornare fra i proiettili dei Carabinieri. Era un mattatoio, quello, in mezzo all’abitato, che (se potesse parlare) tante storie ci potrebbe raccontare. Forse, quelle mura, tremano ancora di paura!
PASSARONO GLI ANNI… FIN POI AI TEMPI MODERNI
Ci fu un tempo in cui “il macellaio” allevò o rinfrescò anch’esso buoi, maiali, pecore e perfino galline e conigli nella sua stalla, anche lo scrivente andò più volte a farsi dare dell’erba dal vicino contadino per portarla loro da mangiare, ma mentre trascorrevano gli anni, senza rendersene conto, mentre nascevano nuove generazioni e complessi edilizi e supermercati, stavano per arrivare altri tempi. Ma questa è un’altra storia.
Bene. Quello che vi ho appena accennato non è che una nuova sbirciatina dal buco della serratura del tempo, che in parte ripete ma in altri aggiunge, momenti di quella che fu la “vita da macellaio” di qualche tempo fa.
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