Storie di Sicilia
IL GIOVANE AUGUSTO (primo imperatore di Roma Caput mundi)
Erede di Cesare, fondatore dell’impero romano. Caio Giulio Cesare Ottaviano Augusto (in latino Gaius Iulius Caesar Octavianus Augustus; nelle epigrafi: Roma, 23 Settembre 63 a.C. – Nola, 19 Agosto 14 d.C.), era meglio conosciuto come Ottaviano o Augusto, fu il primo imperatore romano.
Ancora oggi, percorrendo le vie di Roma si può incontrare Augusto: nelle mura, negli archi, nelle statue. E anche nell’ormai smorto spirito imperiale che alla città aveva conferito un regime politico, quello del ventennio mussoliniano, in cui si era data al popolo l’illusione di poter rivivere le sepolte glorie di Caput mundi.
Il cielo era dominato dalla costellazione del Capricorno quando sul Palatino, all’alba del 23 settembre del 63 a.C., nacque Ottavio. Era l’anno 691 ab urbe condita. Il governo dello Stato, res publica, era retto da due consoli assai diversi tra loro, un ondivago intellettuale, come Marco Tullio Cicerone, e un discusso personaggio, come Caio Antonio Ibrida, che aveva avuto anche guai giudiziari essendosi arricchito illecitamente. Al momento della nascita il bambino non potè chiamarsi che Octavius, semplicemente, perché nulla di più poteva dargli il padre oltre la ripetizione del nome, quello di Caio Ottavio, pur essendo stato governatore della Macedonia. In verità un soprannome onorifico lo ebbe, quello di Thurinus, dalla vittoria che il padre aveva riportato in territorio di Thurii (Turi) contro i ribaldi seguaci di Spartaco e di Catilina. Ma era ben poca cosa.
La madre, Azia, era invece nipote di Giulio Cesare in quanto figlia della di lui sorella Giulia, sicchè il bambino si trovava a essere il pronipote di un uomo che aveva già mostrato al mondo quanto fosse grande la sua ambizione. La famiglia paterna di Ottavio era di origini oscure e piuttosto plebee. Proveniva da Velitrae (Velletri), una cittadina forse volsca, arroccata su un promontorio all’ombra dell’Artemisio a sud della capitale. Secondo mormorii non del tutto infondati e peraltro arricchiti da spruzzatine di veleno alla Svetonio, il bisnonno paterno era stato un ex schiavo fabbricante di cordami, mentre il nonno era un facoltoso cambiamonete, argentaurius, se non proprio usuraio. Il nonno materno, Marco Azio Balbo, era invece, e sicuramente, un onesto senatore di Aricia (Ariccia); anche lui plebeo, con antenati mugnai, ma che alla fine si erano imparentati con il grande Pompeo.
Prima e dopo il giorno natalizio di Ottavio si verificarono eventi che gli oracoli interpretarono come premonitori di un fulgido avvenire cui il piccolo era destinato per volere degli dèi. Nell’atto in cui Ottavio veniva alla luce un fulmine abbattè un tratto delle mura di Velletri, e se ne trasse l’auspicio che un velletrano sarebbe asceso al potere assoluto. Quel mattino il padre, trattenuto a casa dal parto della moglie, arrivò tardi in Senato sebbene si discutesse su una grave questione, quella delle minacce alla salute dello Stato che venivano agitate da un tragico demagogo come Catilina, deciso a tutto, anche all’insurrezione armata, pur di impossessarsi del potere. Roma era attraversata da una grave crisi morale; era una città tanto grande quanto corrotta. Si aggregava a Catilina chiunque non avesse niente da perdere tra i plebei, disoccupati, schiavi, pastori, ma anche tra cavalieri e senatori screditati e indebitati. Lo seguivano molte donne che conducevano vita dispendiosa o che facevano mercato del proprio corpo. In questo clima nasceva Ottavio.
Un senatore, Publio Nigidio Figulo, nel vedere entrare affannato nella Curia il collega Caio Ottavio e, appresa la ragione del ritardo, lo affrontò con impeto dicendogli: “Ci hai dato un re!”. Nigidio godeva di grande autorevolezza essendo matematico e filosofo neopitagorico. Al grido di un uomo così importante Caio Ottavio si spaventò, e voleva subito tornare a casa per uccidere il neonato ed evitare a Roma la sciagura di cadere sotto le grinfie di un monarca. A fatica Nigidio riuscì a placare il collega e a spiegargli l’equivoco in cui era caduto.
Il bimbo fu ben presto ricondotto a Velletri, mentre la madre ringraziava Apollo che nel tempio del luogo (forse nel giorno stesso del concepimento) le aveva preconizzato per il nascituro un fulgido avvenire. Ottavio era ancora in fasce quando un giorno scomparve improvvisamente dalla culla, e non fu rinvenuto che l’indomani sulla più alta torre di Velletri con la faccia esposta a Oriente. Appena più grandicello, ma ancora ai suoi primi balbettii, impose il silenzio alle gracidanti rane di un acquitrino. Esse tacquero immediatamente, ma ancor più strano fu il fatto che da quel momento in quel luogo non si udirono mai più rane strepitare.
A soli quattro anni Ottavio perse il padre quando questi stava per ascendere al consolato. Roma per il bambinetto era lontana nonostante fossero assai pochi i chilometri che la separavano da Velletri. Ottavio appariva esile, quasi diafano, di salute malferma. Cresceva sempre più freddoloso. Non si sentiva mai sufficientemente coperto, sebbene nelle più rigide giornate invernali indossasse maglie di lana e quattro tuniche sotto la toga. Portava spesso un copricapo. Non riusciva a sopportare neppure il sole, sia nelle belle, sia nelle cattive stagioni.
Ma fermo aveva lo sguardo, e splendidi erano gli occhi azzurri. La fronte era alta, biondi erano i capelli e un po’ arruffati. La sua statura era al di sotto della media, per recuperare in parte lo svantaggio portava alte calzature.
I libri furono i suoi primi compagni. Dimostrava di possedere un’ottima memoria, sicchè mandava a mente con rapidità portentosa lunghi brani di Omero, della cui lingua si era invaghito, pur senza riuscire a impararla compiutamente. Nessuno dei suoi amici potè sorprendersi il giorno in cui, a soli dodici anni, pronunciò a Roma dall’alto dei Rostra nel Foro con ricchezza di eloquio la laudatio funebris per la scomparsa della nonna Giulia. Indossava la toga virile e anche la tunica ornata di porpora, proprio come un senatore. Seguiva nella laudatio le orme di Cesare che già vent’anni prima aveva commemorato la morte della zia Giulia presentando la gens Iulia, e quindi se stesso, come discendente della dea Venere, poiché Iulo, cioè Ascanio, era figlio di Enea, il famoso condottiero troiano nato appunto dall’unione di Anchise con Afrodite. Ancora giovinetto Ottavio parlava spesso in pubblico, e lo faceva così bene da strappare ogni volta scrosci di applausi e vive congratulazioni. Era sempre attorniato da giovani coetanei e anche da adulti suoi ammiratori. Le donne se ne innamoravano, ma Azia “dai cento occhi” riusciva a salvaguardarne la castità. Il prozio vedeva in lui la propria immagine rovesciata; alle intemperanze del capitano coraggioso corrispondeva il sommo equilibrio del giovinetto temporeggiatore, la prudenza, la misura in ogni cosa. Al grande giocatore d’azzardo faceva riscontro il freddo calcolatore. Sanguigno era dunque Cesare, esangue Ottavio. “Affrettati lentamente”, amava dire in greco il ragazzo che studiava quell’antica lingua alla scuola del grande retore Apollodaro di Pergamo. E i romani ripetevano le sue parole in latino: “Festina lente”. Ottavio era sempre sul chi vive. Timoroso delle ombre, “iste qui umbras timet”, diceva di lui Cicerone.
Nonostante lo spiccato contrasto di caratteri, Ottavio ammirava profondamente l’uomo che aveva conquistato la Gallia. Il ragazzo cresceva, sebbene gracilmente, mentre Cesare mieteva sempre maggiori allori. Al giovane era arrivata l’eco di un nome misterioso, quello di Vercingetorige, lo sconfitto re dei galli, un uomo terribile per corpo, armi e ardire. Il suo stesso nome, Vercingetorix, come lo chiamava lo zio, aveva un suono che da solo incuteva spavento. Ma grazie alle vittorie di Cesare l’impero romano poteva vantare d’aver superato i domini di Ciro e del tanto invidiato Alessandro.
04 Aprile 2014
NOTA. Testi sono tratti dal libro: “Augusto” di Antonio Spinosa, pubblicato dalla Armando Mondadori Editore nel 1996.
Invia un Commento