Il resto della Sicilia, Storie di Sicilia
MISSIONE LAVORO NELL’ “ALTRA SICILIA”
Sembrava quella una missione alla scoperta di un mondo nuovo. In realtà, si sarebbe trattato semplicemente di un viaggio in auto durato circa quattro ore, che avrebbe condotto quattro giovani in cerca di lavoro nell’Altra Sicilia. Fra questi “avventurieri” c’era anche il geometra Fisichella che, nonostante fosse ancora iscritto all’albo professionale seguiva l’istinto come avesse fiutato l’opportunità della vita. Curiosamente stava ora rifacendo le valige, esattamente undici anni dopo la sua partenza per il servizio di leva, avvenuta il 23 Settembre 1986.
Raggiunto il paese collinare, le strade ancora zuppe per la precedente pioggia, i raggazzi non conoscevano i luoghi e tantomeno avevano idea di dove avrebbero passato la notte. Chiesero un po’ di qua un po’ di là, fino trovarsi a due passi dal capannone dove avrebbero lavorato. Grande stupore nei volti dei residenti appena si rendevano conto che i giovani in cerca di lavoro in loco provenivano dalla punta opposta della Sicilia, ossia dalla costa orientale ben più progredita. Erano infatti “sbarcati”, proprio in un paese dove nel decennio precedente la popolazione si era quasi dimezzata a causa dell’emigrazione per… mancanza di opportunità occupazionali.
Il “boss”, (così l’avrebbero definito riferendosi a lui in futuro), nonché proprietario della fabbrica di cablaggi elettrici per auto era lì nel suo studio, ma quasi non si ricordava che dovessero arrivare quel giorno. Tuttavia li accolse cordialmente e fece loro firmare subito i documenti per un “contratto formazione e lavoro”. Un lavoro che, a quanto si era saputo, in precedenza era stato addirittura proposto ad altri giovani provenienti dalla stessa zona di questi ultimi, ma che pare li avesse inorriditi già al sopralluogo. I ragazzi dovevano cercarsi una casa, in un ambiente e in territorio sconosciuto: erano dunque dei folli? Ma si sa, quando si è giovani, sentirsi un po’ Indiana Jones può far apparire tutto più semplice se non addirittura stimolante. Nella stessa giornata infatti, i nostri eroi venivano inaspettatamente aiutati dai nuovi colleghi nel trovare una casa in affitto: in realtà si trattava di un vecchio fabbricato dichiarato inagibile come tanti nella zona dopo il lontano terremoto del Belice, ma privo di qualsiasi arredamento. Un vetro rotto ad una porta, e nel quale penetrava l’acqua dal soffitto alle prime piogge. Ma poco male, si affrettarono a comprare reti e materassi ed a improntare i letti dove avrebbero dormito la prima notte. Intanto.
Nei giorni successivi, nei loro confronti iniziò una specie di gara di solidarietà: qualcuno donò una vecchia credenza dove riporre piatti e cose da mangiare e alcune sedie. Intanto, momentaneamente, il tavolo era una porta dismessa appoggiata fra credenza e sedie e, una bella tovaglia abbelliva tutto. Poi, mentre un vecchio frigorifero ed una stufetta elettrica rendevano ai ragazzi la vita un po’ meno avventurosa, erano tre i turni di lavoro che si dipanavano sulle 24 ore. Una sola volta, toccò al geometra di fare il turno di notte assieme ad uno dei paesani, ma l’incredibile fu quella volta, che appena smontati dal turno alle sei di mattina, questi assieme agli altri due si imbarcarono, come sempre facevano per il fine settimana, per la maratona del viaggio verso casa. Una vera pazzia, vista la stanchezza e l’autostrada fradicia di pioggia.
Rimanevano tutto il sabato al proprio paese: chi coi familiari, chi con la moglie, chi con la fidanzata, si portavano a casa la biancheria sporca da lavare. Terminato il weekend, caricate cibarie prelibate e cianfrusaglie varie sull’auto di turno, la domenica notte si ripartiva per riattaccare la mattina presto dell’indomani, in fabbrica. Dopo una dormita di un paio d’ore appena, al suono della sveglia una brioche e via: due di loro partivano per primi, gli altri due avrebbero montato alle quattordici, al loro ritorno. Un pranzetto riscaldato in quattro e quattr’otto e una dormita.
Chi ricorda la Fiat Punto prima serie? Ebbene, come in tutte le auto, nell’impianto elettrico esiste principalmente un grosso fascio di cavi raccolti insieme, che dal motore-batteria raggiungono l’abitacolo diramandosi con tanti connettori ai vari: messa in moto, alzacristalli elettrici, chiusura centralizzata, luci di cortesia, ecc. Nel passaggio fra motore e abitacolo una parete “taglia fuoco” separa i due vani, ed è in quel punto che una grossa guarnizione di gomma impedisce che si verifichino infiltrazioni di alcun tipo: Quel “gommone” lo realizzavano in quel capannone, all’interno del quale venivano completati ed impacchettati i cablaggi realizzati altrove.
Era un lavoro che non poteva definirsi proprio “pesante”, ma stressante – e un po’ rischioso per la salute – si, visto che bisognava tenere un certo ritmo, seguendo un copione ripetitivo: dallo spruzzare la cera negli stampi dei suddetti “gommoni” per impedire che una volta sformati non vi rimanessero incollati e tirandoli si rompessero, fino rifilarne i contorni irregolari con la forbice.
Al paese, i quattro, erano considerati dai più delle persone “sistemate”, perfino invidiati per essere titolari di stipendio mensile certo, ma nell’ “Altra Sicilia”, la vita non era poi così facile: quando terminavano le scorte portate da casa, capitava di mangiare un piatto di spaghetti conditi col pessimo (ed acre) pomodoro acquistato in fretta nella bottega accanto, bolliti nell’acqua portata nelle taniche da casa dal Fisichella perché quella corrente non era potabile o comunque non sicura, tanto più per chi soffriva di coliche renali. L’acqua corrente, arrivava i paese due volte alla settimana: riempiva la loro cisterna sita sotto il solaio del garage, poi bisognava accendere l’autoclave perché la tirasse su fino al serbatoio sul tetto. Quando qualcuno di loro si voleva lavare, bisognava sbrigarsi nel farsi la doccia, perché lo scaldino sito nel bagnetto conteneva di pochi litri e l’acqua calda terminava subito.
Presto, ognuno dei quattro ragazzi comprò il proprio cellulare: un lusso ed una novità assoluta per allora, ma una spesa necessaria, visto che in quella casaccia c’èra la luce elettrica ma non c’era il telefono fisso dal quale fare rassicuranti conversazioni coi parenti. Finalmente un televisorino da 14 pollici portato da casa, faceva un po’ di compagnia a pranzo, o a cena prima di andare a dormire.
Ebbene, il geometra era un appassionato di motori, un patito di Formula Uno, tanto che un giorno organizzò un viaggetto con meta la vicina città dei genitori di Jean Alesì, pilota Ferrari. Alcamo. Che soddisfazione quando si ritrovarono nel bar in cui il ferrarista aveva trascorso tante giornate insieme ai suoi amici d’infanzia: tante le foto attaccate alla parete dei tifosi ferraristi, dove si vedeva Jean in pantaloncini corti insieme a tutti loro. E come dimenticare quella “arrampicata” su per la tortuosa strada di Erice? Si trattava dello stesso percorso famoso per le cronoscalate dei prototipi. Guidando la sua utilitaria, il geometra ed amico raggiunsero la cittadina dello scienziato Antonio Zichichi. Freddissima quel pomeriggio d’inverno, ma incantevole nello spettacolo del paesaggio trapanese che si poteva ammirare da lassù. Meravigliose le sue strette stradine lastricate di sampietrini, caratteristici i negozietti: insomma, una seconda Taormina ma più tranquilla. Non fosse stato per l’inquinamento elettromagnetico provocato dal Centro ricerche dello scienziato, (di cui il nostro visitatore andava fiero) sarebbe stato un paradiso per chi ama la tranquillità.
Tornando a casa ogni fine settimana, i quattro passavano necessariamente accanto ad un gard rail dipinto di rosso: erano a Capaci, sul tratto di autostrada dove il Giudice Falcone, la moglie e la scorta erano stati, alcuni anni prima, ridotti in brandelli di carne, sangue e lamiere contorte da una carica di esplosivo. Un tremendo delitto di mafia che segnava quella terra. Così erano costretti a ricordarsi dove stavano vivendo da mesi: a due passi da Palermo, a pochi chilometri da Corleone, sede dei grandi boss della malavita organizzata, terra antica dimora di famigerati miti come il bandito Salvatore Giuliano. Ogni volta, il geometra distoglieva un occhio dalla guida, guardando inorridito quella lama d’acciaio dipinta di rosso sangue.
Poi, al ritorno dall’ennesimo weekend trascorso in famiglia si passava vicino Calatafimi, storica città teatro di epiche battaglie risorgimentali. Svolta dopo la solita routine di lavoro, l’idea di visitare la città in cui si realizzò il mitico sbarco dei Mille di Giuseppe Garibaldi. Marsala: un giro fra le saline, uno spettacolo di laghetti artificiali e cumuli di sale marino coperti con coppi siciliani. I nostri operai-turisti per caso, settimane dopo fecero un salto a Mazara del Vallo, sede della famosa “Mattanza dei tonni”, ma non in occasione della mattanza purtroppo. O per fortuna, visto lo spettacolo non per tutti gli stomaci. Mazara, una cittadina che tanto ricordò ai nostri ragazzi la loro Giardini Naxos. Come questa era infatti una città di mare, come questa sede del turismo e della pesca. Il mare, quanta nostalgia in quelle giornate passate fra fili elettrici e aria solitaria di montagna.
Fra i momenti che non avrebbe dimenticato, una convocazione di tutti gli operai di quella fabbrichetta in caserma. A turno, sarebbero stati interrogati, privatamente. Il Colonnello dei Carabinieri avrebbe chiesto al geometra: “non abbia timore, se ha subìto intimidazioni od altro lo deve dire!”. La risposta, forse inaspettata che proferì quest’ultimo fu: “sono ben conscio che ciò che fate è nel mio interesse, quindi se avessi da raccontarle qualcosa lo farei ben volentieri”. Che si sia saputo, non ci furono strascichi di alcun tipo collegati a quell’indagine. Tutto rimase sereno, o almeno così parve al geometra.
Calò il lavoro nella fabbrichetta, anche se non fu per quello che il geometra decise di fare un passo indietro e lasciare gli amici-colleghi. Come in tutte le “avventure”, i quattro, chi prima chi dopo avrebbero concluso l’esperienza nella “Altra Sicilia”. Pare che, l’ultimo giorno del geometra (ormai ex cablatore) sia stato sofferto, nonostante non avesse mai legato del tutto coi colleghi, nonostante non fosse mai stato proprio felice del tipo di occupazione, gli dispiaceva, infondo, di doversene separare per sempre. Quel pomeriggio, raccolse tutte le proprie cose, anzi no, lasciò nella vecchia casaccia sia il materasso che la rete da letto ancora nuovissimi, cose che, altrimenti avrebbe dovuto per forza legare sul tetto dell’auto dell’amico. Controllò più volte al piano di sopra come al piano terra se stesse dimenticando qualcosa, poi passò a salutare i colleghi a lavoro. Salutò il boss e, sedutosi sull’utilitaria mentre l’altro metteva in moto guardò per l’ultima volta il paesaggio, la gente. E tornò a casa.
23 Gennaio 2014
Giovanni BonarRIGO
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