Spettacolo e Cultura
Quasimodo e i suoi travolgenti amori
Con queste parole, dava inizio ad uno dei suoi dotti discorsi, tempo fa il brillante Cav. Angelo Cascio, come a recitare i versi di un appassionante romanzo, una introduzione che faceva solo presagire senza svelare, tralasciando alla lettura del suo libro il soddisfacimento della profonda curiosità del lettore: “All’apertura della mie considerazioni sugli amori del professor Salvatore Quasimodo; considerazioni forse congetturali e fantasiose! … d’altronde quale fascino eserciterebbero, sull’animo, le vicende di gioie, di dolori e di speranze, se, nel descriverle, mancasse ad esse il soffio ispiratore e l’afflato lirico?”
Così Cascio proseguiva: “Prendendo spunto dal libro, fresco di stampa, e piacevole ed interessante, dal titolo: “Le donne e Quasimodo”, edito per i tipi della casa editrice “Archivio Concetto Marchesi”, con sede in Sciglio di Roccalumera, e scritto dal dotto professore Carmelo Calabrò, roccalumerese autentico, che ebbe, con il grande Poeta e traduttore roccalumerese, rapporti di familiarità e confidenza; e che, in Roccalumera, è il solo depositario di alcuni segreti degli amori del Quasimodo, mi piace, in merito a Quasimodo innamorato, dire anche la mia. Salvatore Quasimodo, spirito inquieto, onore e vanto di Roccalumera, nella città adagiata sul Bosforo d’Italia, dell’Itali tutta intera, e della Patria, prima o poi, dopo i suoi passeggeri e travolgenti amori, avrebbe, a parer mio, trovato, finalmente, la serenità dell’animo e è un po’ di pace… e proprio stringendo tra le braccia l’unica e sola donna , che volle veramente bene, e che amò di profondo e sincero e puro amore; …e fu ricambiato, nell’amore, con la stessa dolcezza e comprensione. Ella l’aveva amato troppo, e l’amava, con passione; e, pertanto, sarebbe stata ben disposta, e sempre pronta, a concedergli il perdono.
Compagna affettuosa, e molto premurosa, che, profondamente ferita, giustificò sempre i giri di valzer sentimentali del diletto, amato e dotto compagno: anche perché capiva e sapeva bene, da scrittrice e poetessa, qual era, che un grande poeta ardente, necessariamente, aveva bisogno di avere accanto a se altre dolcezze femminili, che, nel travolgente vortice della passione, sarebbero state la parnàsie Muse, ispiratrici dei suoi alti versi.
E ritengo che il Roccalumerese, dall’animo greco, non abbia potuto non notare gli affanni e le pene sofferte dalla donna davvero amata; e, con la quale, placato l’accecante vento della voluttà e del piacere amoroso, sarebbe tornato di nuovo a convivere, sotto lo stesso tetto, e a provare, passata la propria stagione, le gioie e l’intimità del focolare domestico.
E, certamente, sarebbe ritornato, e a lungo, lasciate la fitte nebbie delle sconfinate pianure, e le fugaci passioni, alla casa avita; al paese d’origine, dove “gioventute” gli arrise. Al paese, cioè, delle tamerici e delle palme; al paese, come scrive la suora slovacca, dottoressa Hudecovà, “dipinto da albe meravigliose; e rivestito dal canto mattutino delle rondini… paese baciato dal vento, dalla pioggia, dal sole, dal mare…”: qui, per l’appunto, a Roccalumera, paese che si specchia nell’onde del greco mare.
E sarebbe tornato: anche perché il traduttore dei traduttori dei grandi poeti della lirica eolica, coi quali, e idealmente, navigò, a lungo, per mare Egeo, sul musico, aureo ed istoriato naviglio, dalle purpuree vele, non avrebbe potuto fare a meno del suo “brano di mare”: del celeste Jonio: il mare di Grecia: il mare di Scilla e Cariddi; il mare di Polifemo e di Ulisse; e delle Sirene, dal canto soavissimo. E il grande poeta, che unì, con segreti vincoli, la poesia greca con la italica: “Amore, Amor, sussurran l’acque; e Alfeo chiama nèverdi talami Aretusa. A noti amplessi ed al concento acheo l’itala musa”; sentendo lo sciacquio delle onde del celeste mare, e il pianto doloroso dei gabbiani in volo; e trasportato anche dai ricordi storici e mitologici, avrebbe potuto, tuffandosi nell’antichità serena, e nelle arcane leggende, udire, coll’immaginazione, la voce dell’eternità, e il pianto doloroso e disperato delle donne greche dai lunghi pepli e con le braccia protese verso il cielo.
“Io stavo ad una chiara conchiglia del mio mare e nel suono lontano udivo cuori crescere con me”.
Invia un Commento