Storie di Sicilia
Da “Cavour” (di Indro Montanelli)
Indro Montanelli, nato a Fucecchio (Firenze, 1909), fu uno dei giornalisti italiani più noti. Autore di romanzi brevi, racconti, scritti di memorie e testimonianze, opere di teatro, è stato apprezzato soprattutto per la sua “Storia d’Italia”. Il XXX volume (il terzo de “l’Italia del Risorgimento”) è dedicato al periodo fra la prima e la seconda guerra d’indipendenza: dopo gli eroici furori di Roma e Venezia, la calcolata diplomazia del grande artefice dell’unità italiana, il conte di Cavour.
“Cavour, era nato nel 1810 a Torino da una tipica famiglia di quella nobiltà piemontese, che integrava le rendite terriere col servizio di stato”, scrive Montanelli. “Il patrimonio di famiglia versava in pessime condizioni, quando la sua amministrazione fu assunta da Filippina de Sales, nonna di Camillo: una savoiarda discendente dal famoso Santo, ma per nulla bigotta, anzi allevata alla scuola del migliore e più spregiudicato Illuminismo francese, e dotata di molto senso pratico. Il figlio Michele, che da lei aveva ereditato il culto dell’efficienza e il genio degli affari, era ufficiale quando Napoleone occupò il Piemonte e ne incorporò l’esercito in quello francese. Alcuni agiografi dicono che Michele accettò di servire il nuovo padrone controvoglia e solo su ordine del suo Re, Carlo Emanuele, che cercava d’ingraziarsi il vincitore; combattè contro gli austriaci sotto quel vessillo straniero”.
… La Restaurazione fu, per Michele, una catastrofe. Per il suo collaborazionismo con i francesi, la polizia lo aveva schedato come “giacobino”, la Corte lo teneva a distanza, e la concessione della Mandria gli venne revocata. E fu con altrettanto realismo che Michele iniziò la marcia di avvicinamento al nuovo regime, ch’era poi quello vecchio. Riuscì a catturare l’amicizia di Carlo Alberto che non poteva serbar rancore a chi aveva servito Napoleone perché da ragazzo lo aveva fatto anche lui, ed ebbe l’accortezza di restargli fedele anche nel lungo decennio della disgrazia, dopo i moti del ‘21.
Quando il principe tornò a Torino, reintegrato nei suoi diritti alla successione, l’ostracismo politico pesava ancora su Michele , ma la sua posizione economica si era riassestata, grazie anche ai denari della moglie e alle sue relazioni. Aveva acquistato la grande tenuta di Leri e ne aveva fatto una fattoria modello, su cui aveva anche scritto una monografia. Con l’aiuto delle banche svizzere aveva condotto in porto qualche buona speculazione, e aveva stretto relazione col gruppo degl’imprenditori capeggiato da Confalonieri Porro- Lambertenghi. Ma a vere e proprie iniziative industriali era rimasto estraneo: le considerava premature in un Paese così arretrato. Ed era proprio questo a differenziarlo dal figlio, il quale invece pensava che il Paese era arretrato appunto perché non vi fiorivano iniziative industriali, di cui vorrà dare egli stesso l’esempio.
Questo figlio non lasciava, per il momento, presagire nulla di buono. Lo avevano chiamato Camillo in onore di Camillo Borghese, il marito di Paolina Bonaparte, che lo aveva tenuto a battesimo, e che le male lingue gli attribuivano come padre naturale (ma non era che una diceria non suffragata da nessun elemento, e anzi smentita dall’austera morale di Adele).
Camillo era ribelle a tutto, compreso l’alfabeto. E fu per questo che per dieci anni lo rinchiusero all’Accademia Militare, che anche allora veniva considerata il rifugio dei somari. Il ragazzo fu subito in guerra col regolamento di disciplina e diventò un ospite abituale della cosiddetta “squadra franca”, costretta a passare lunghe ore in ginocchio e in silenzio e a subire le vergate del sergente. Ma lo spirito di emulazione lo spinse a cercare una rivincita nel profitto. In pochi mesi colmò le lacune della sua preparazione, ottenne la menzione d’onore e fu insignito della “cifra reale”. Non per questo il suo carattere migliorò, anzi. Protervia, orgoglio, insolenza, sarcasmo, smania di supremazia e di comando lo rendevano inviso non soltanto ai superiori, ma anche ai compagni. A quattordici anni il padre gli procurò la nomina a “paggio” di Carlo Alberto. Era l’incarico più ambito dagli accademisti. Ma Camillo non lo apprezzò. Anzi, disse che non vedeva l’ora di liberarsi di quella “livrea da gambero”. Le insolenti parole furono riferite al Principe, che denunziò il ribelle al re Carlo Felice chiedendogli di degradarlo. Il Re, che avrebbe preferito degradare lui, non ne fece nulla, e lasciò che Camillo terminasse l’Accademia. La terminò a sedici anni con esami splendidi in tutte le materie, meno l’italiano. Lo parlava male perché la lingua di casa Cavour era il francese,lo scriveva peggio, e in seguito avrebbe dovuto molto faticare per impadronirsene. Per tutta la vita, anche da Primo Ministro dell’Italia unita (e unita da lui), egli seguiterà a parlare e scrivere in italiano traducendo dal francese, e in francese a parlare e scrivere in privato. Come del resto facevano tutti gli altri della sua famiglia e del suo ambiente.
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