Storie di Sicilia
Ricordi di Guerra (di Vittorio Sartarelli)
Fra le storie del Novecento, intorno agli anni ’40, la Seconda guerra mondiale fu quella che più delle altre segnò, in modo indelebile, l’immagine del nostro Paese, lasciando dei solchi profondi e spaventosi, sia sul territorio, sia sul tessuto socio antropologico italiano, nell’ormai trascorso secolo XX.
Da persona ormai molto matura e con il senno di poi, non posso fare a meno di esprimere alcune considerazioni che mi portano a raccontare episodi ed aneddoti della mia più tenera età, “memorie” che sono rimaste impresse nella mia mente e nella mia anima, per un concorso talmente inscindibile di situazioni, di emozioni profonde e di ricordi che hanno permesso loro di fissarsi, in modo sicuramente indelebile anche nella mia coscienza.
Le ansie, le paure, le tragedie di quegli anni terribili, mi tornano alla mente, seppure nella nebbia dei tempi andati, in modo così violento ed impulsivo e con una lucidità di ricordi, incredibilmente vivi e reali. Avevo allora, quasi sei anni, non sapevo e non potevo sapere nulla della guerra, né cosa essa fosse, né perché fosse lì ad angustiarci tutti quanti, tuttavia, pur essendo un bambino, avvertivo quel senso di ansia continua e di paura che irretiva gli adulti della mia famiglia.
Abitavamo in una cittadina del profondo Sud d’Italia, all’estremità occidentale della Sicilia. La prima esperienza di guerra, avvenne proprio in città, eravamo riuniti nella casa della mia nonna materna, per festeggiare il Capodanno, ci trovavamo alla fine del 1940. Nell’approssimarsi della mezzanotte, fuori, nel cielo echeggiavano degli scoppi e s’intravedevano dei lampi, tutti credevamo, ignari, che si trattasse dei fuochi d’artificio per festeggiare l’avvento del nuovo anno.
Solo il giorno dopo, invece, abbiamo saputo che si era trattato del primo bombardamento aereo, per opera dei Francesi, subito dopo l’entrata in guerra dell’Italia. Fortunatamente, nella circostanza, non c’erano state né vittime né danni, gli aerei, fatti segno dal fuoco di sbarramento delle postazioni difensive della città, avevano sganciato le bombe sulla scogliera di Tramontana e si erano allontanati. Era stata quella, dei nostri cugini d’oltre Alpe, una sorta di azione dimostrativa a scopo punitivo e intimidatorio.
Quello, era sembrato solo un giuoco o, tutto al più, uno scherzo di cattivo gusto, del resto la propaganda fascista del “ventennio” non faceva altro che minimizzare l’evento bellico, nelle sue conseguenze negative per il Paese e per le sue Forze Armate. Anch’io, da bambino giocavo, in casa, alla guerra con i soldatini di piombo per me, la guerra era solo un fantastico giuoco. Anche la guerra, quella vera, può sembrare un giuoco ma, perverso, che porta tragiche conseguenze, lutti e distruzioni immani.
Quell’episodio di guerra, tuttavia, scoperto come tale solo a posteriori, tutto sommato insignificante, fu presto dimenticato, le cose si complicarono, invece, nel 1942, con l’entrata in guerra degli Stati Uniti, cominciarono i guai. Iniziarono, allora, i bombardamenti sulle città italiane a causa delle “fortezze volanti”, così erano chiamati gli aerei a quattro motori che volavano ad un’altezza di diecimila metri, in pratica irraggiungibili dalla nostra contraerea. Questi aerei sganciavano bombe a grappolo, o effettuavano bombardamenti a tappeto sulle città, le conseguenze erano terrificanti, interi palazzi venivano giù come birilli del Bouling.
In una delle frequenti incursioni aeree sulla nostra città, le bombe colpirono la casa di un noto medico della città, l’appartamento si trovava appena a due isolati dalla casa di mia nonna, dove spesso ci riunivamo. Avvertiti dell’accaduto, ricordo che mio padre ed io ci recammo a trovare mia nonna per assicurarci che non avesse subito alcun danno. La vista che si presentò ai nostri occhi fu terribile, quel palazzo non esisteva più, le macerie ingombravano quasi tutta la strada, i vigili di quella che era, allora, la protezione civile, cercavano di portare aiuto ai feriti.
Quella scena rimase a lungo nei miei occhi di bambino, negli orecchi sentivo ancora i gemiti ed i lamenti delle persone che erano soccorse, non capivo il perché di tutto ciò, ma avvertivo la sofferenza di quelle persone e lo sgomento di coloro che come noi, assistevano a quelle scene pietose. Tuttora, sono passati più di sessanta anni, ricordare quella scena mi procura una grande tristezza e percepisco, ancora, quel senso di ansia e di pericolo incombente che, inconsciamente, mi comunicavano gli sguardi e le espressioni dei miei genitori.
Mio padre, allora, preoccupato per i bombardamenti decise subito un trasferimento, per i familiari ed i parenti più stretti, dalla città alla campagna dell’hinterland cittadino. Lo sfollamento per motivi bellici, fu un fenomeno di massa caratteristico di quegli anni. Tutti fuggivano dalle città, terrorizzati dai bombardamenti, lasciavano le loro case, cercando rifugio ed asilo nelle campagne circostanti o nei paesini pedemontani del circondario, dove non esistevano obiettivi militari, né postazioni strategiche da colpire. Ci stabilimmo, così, in un paese posto sulle colline antistanti il Monte Erice, sul versante di mezzogiorno.
Dalla finestra della camera da letto dei miei genitori, si poteva scorgere tutta la vallata che degradava progressivamente verso il mare, ad un paio di chilometri, in linea d’aria dalla nostra nuova casa, si poteva vedere agevolmente l’aeroporto militare sottostante, o meglio, come si usava dire allora, il campo di aviazione. Ai quattro angoli del suo ampio rettangolo, che conteneva le piste di decollo ed atterraggio degli aerei, erano stati piazzati dai tedeschi, quattro cannoni elettrici, in grado di scagliare obici ad oltre diecimila metri, di supporto a quelle straordinarie macchine belliche, che le nostre Forze Armate neanche ci sognavano di possedere vi erano, dislocati abilmente ad incrocio sul campo, dei potenti riflettori.
Poiché il campo di aviazione era, presso che, la mèta costante e ripetuta delle incursioni aeree delle “fortezze volanti” che avvenivano puntualmente di notte, spesso si poteva assistere, come ad uno spettacolo notturno, durante il quale gli aerei cercavano di colpire le piste dell’aeroporto, mentre i tedeschi li inquadravano con i riflettori e li bersagliavano con i cannoni elettrici, dei quali non si udiva il boato dello sparo, ma si vedeva soltanto un lampo azzurrognolo e poi l’esplosione dei proiettili o in prossimità degli aerei, o direttamente su di essi.
Mio padre, aveva fatto scavare, in prossimità della casa di campagna, dove eravamo sfollati,un rifugio antiaereo, sotto un enorme monolite di roccia a forma di cubo, creando un cunicolo che in fondo si apriva in una grotta nella quale potevano rifugiarsi oltre noi, anche le persone che abitavano nelle immediate vicinanze. Un’altra cosa che ricorderò per sempre, perché sono cose che non si possono dimenticare, era il lugubre ululato delle sirene che davano l’allarme, e la discesa che facevamo, durante la notte, nel rifugio, spesso illuminati dalla luce spettrale dei bengala lanciati dagli aerei.
Mi vedo ancora, avvolto in una coperta, in braccio a mio padre che scendeva precipitosamente nel rifugio, mentre impaurito cercavo di nascondere il capo sotto la coperta di lana. Ci seguivano da presso mia madre, la zia e la nonna paterna; in fondo al cunicolo, nella grotta, faceva freddo e c’era l’odore caratteristico di terra smossa che si mischiava al fumo delle torce che illuminavano il luogo, sembrava di scendere all’inferno, tuttavia, era un luogo sicuro che ci metteva al riparo dalle bombe.
Sovrastava il paese nel quale abitavamo un costone roccioso molto alto, sul quale era stata piazzata una batteria di cannoni antiaerei, la posizione era strategica in quanto trovandosi a nord del paese, quando gli aerei iniziavano l’incursione, provenendo dal mare di tramontana, erano presi di mira e bersagliati, non appena superavano, in linea d’aria, il paese stesso. Il fatto disorientava i piloti che non riuscivano a capire da dove provenisse il fuoco che cercava di colpirli. A causa di ciò, le incursioni furono spostate tutte nelle ore notturne.
Durante il periodo di sfollamento, che si protrasse per circa un anno, anche se c’era la guerra ed i pericoli erano immanenti, la gente, durante il giorno appariva relativamente tranquilla ed era intenta alle proprie attività. Io, da piccola peste che stava crescendo, ero diventato un ragazzaccio di strada, tutto il giorno fuori di casa, in compagnia di altri monelli più o meno della mia età. Era bello scorrazzare per i campi a caccia di lucertole ed uccellini, o salire sugli alberi da frutta per gustarne qualcuno. Di quel tempo ricordo, oltre il gratificante contatto con la natura circostante, gli odori e i colori di quei luoghi.
Tutto era semplice, sano e genuino, l’aria tersa e frizzante della collina, la gente di campagna non andava al panificio per comprare il pane, se lo faceva da sé, c’era una signora che ogni settimana faceva il pane, nel suo forno a legna ed era buonissimo, dopo una settimana si poteva mangiare ancora, era sempre buono.
E, come era buono quel pane, così piacevole era l’odore della legna messa ad ardere nel forno, si sentiva da lontano, si poteva vedere la sua scia bianca azzurra, che saliva fino al cielo nelle giornate senza vento. Il suo odore ti ricordava la casa, il momento del pranzo, del raccoglimento della famiglia, del focolare domestico, gli affetti più cari che ti legavano ai tuoi genitori, ai tuoi nonni. C’era poi l’odore caratteristico del fieno, all’imbrunire che ti conciliava il sonno, l’odore della terra dopo un acquazzone, misterioso e balsamico, e poi quello del grano maturo pronto da mietere e l’inebriante profumo delle zagare, dei limoni e degli aranci. Tutto un universo di sensazioni e di comunione con quella terra che ci aveva generati e nutriti, della quale portiamo sempre dentro di noi i geni che ci fanno esprimere, con orgoglio, la nostra originaria appartenenza.
Quel senso di protezione e di rifugio che per un bambino rappresentava la sua famiglia, era ancora più sentito e struggente, in un periodo così precario, aleatorio e imprevedibile certo, con il senno e la maturità di adesso, queste sensazioni si possono spiegare razionalmente allora, erano soltanto delle sensazioni e degli impulsi dell’anima e del cuore, dettati dall’istintività e dalla sincerità dell’innocenza.
Tornando alla contestualità della guerra, dopo alcuni mesi del nostro soggiorno obbligato, fuori della città, mia madre si ammalò di tifo. Le condizioni igieniche ambientali non erano al meglio, spesso non ci si poteva lavare in modo soddisfacente, il bagno non esisteva, era in effetti la nostra, una vecchia casa di campagna con annessa la stalla. Il gabinetto mio padre lo aveva fatto costruire apposta, in cemento, in una parte della ex stalla. Naturalmente, nella stagione calda, c’erano insetti di ogni tipo, zanzare, pulci, zecche, ci si difendeva come si poteva, con la volontà e con i pochi mezzi che avevamo a disposizione.
La malattia di mia madre, il tifo, per mancanza di presidi terapeutici adeguati durò quasi due mesi, all’inizio non si trovavano le medicine, poi mio padre si recò nella capitale siciliana e, grazie alla borsa nera, trovò ma, a caro prezzo, i sulfamidici che occorrevano per far guarire mia madre. Intanto durante la malattia, di notte, anche se suonava l’allarme, mio padre ed io non ci muovevamo di casa e dalla finestra della camera da letto, assistevamo alle battaglie che si svolgevano sul cielo dell’aeroporto.
Nonostante i bombardamenti si svolgessero solo di notte e avessero esclusivamente come obiettivo il danneggiamento di difese ed attrezzature dell’aeroporto militare, un giorno, forse per un errore di rotta degli aerei nemici, contemporaneo ad un improvviso guasto delle sirene di allarme, si verificò un attacco aereo in un orario antimeridiano. Come di solito, ero nella piazza del paese insieme con un mio compagno di giuochi. La casualità volle che assistessimo all’incursione, eravamo come paralizzati, invece di fuggire verso casa o verso il rifugio che, fra l’altro, era poco distante, rimanemmo impietriti a guardare.
Un grosso aereo sorvolò il paese a quota relativamente bassa, a noi sembrò molto più grande degli aerei che solitamente vedevamo passare il cielo ad altissima quota, improvvisamente si udirono i colpi della batteria antiaerea che stava sopra di noi, l’aereo colpito in pieno, esplose con un fragore assordante. Si aprì in due, come una noce schiacciata e poi si lacerò in aria come si può strappare un giornale aperto, i pezzi in fiamme cadevano giù, nella vallata sottostante, in alto scorgemmo, attaccato al suo paracadute strappato, un uomo in divisa, con gli occhialoni da pilota che scendeva lentamente verso la valle, le braccia abbandonate lungo il tronco, la testa reclinata ciondoloni, a quel pilota mancavano le gambe le quali, evidentemente, erano state tranciate dall’esplosione.
Quell’immagine, agghiacciante, per un bambino di cinque anni, mi rimarrà impressa nella memoria, per mille anni e, ogni volta che rievoco quei giorni, mi si materializza innanzi, come il lampo di un flash. Quel giorno, dopo avere assistito a quella scena terrificante, corsi subito a casa da mia madre che pian piano stava recuperando la salute, l’abbracciai forte e rimasi così per molto tempo. Per alcuni giorni non volli uscire più fuori e la notte non riuscivo a dormire. Evidentemente avevo subito una violenza alla mia psiche ed alla mia sensibilità di bambino, ci volle ancora qualche tempo perché recuperassi il mio equilibrio psichico e tornassi ad essere quel bricconcello di prima.
La guerra, intanto, qui al Sud da noi stava terminando, in anticipo rispetto a quello che accadde nel resto d’Italia, d’Europa e dell’estremo Oriente. I tedeschi avevano lasciato l’Isola in rotta, mascherando la sconfitta con una ritirata strategica; dopo le sconfitte subite in terra d’Africa, avevano capito che la guerra per loro era ormai perduta, se n’erano andati lasciando sul posto molto materiale bellico che non avevano potuto portare con sé perchè ne avrebbe rallentato la ritirata.
Si era nel mese di Giugno del 1943, Gli Anglo-Americani sbarcarono in Sicilia dove, di fatto, con perdite esigue di vite umane, per l’inefficienza e insufficienza delle forze che dovevano difendere l’Isola, in breve terminarono le ostilità. Ci sarebbe stato poi, storicamente, quel discutibile armistizio del fatidico otto Settembre, giustamente configurato dai Tedeschi come un vero e proprio tradimento degli Italiani nei loro confronti, che diede inizio a quello che fu uno dei periodi più oscuri, esecrabili, vergognosi e controversi della storia d’Italia. Si sarebbero verificati, in seguito come conseguenza, i rastrellamenti e le rappresaglie da parte dei tedeschi contro le azioni della Resistenza, lo sfaldamento delle Forze Armate Italiane poi, le defezioni, i tradimenti, le nefandezze e le uccisioni della guerra civile, tra partigiani e collaboratori del regime con il deposto governo fantoccio della repubblica di Salò, che avvelenarono e appestarono intere regioni nel Nord del nostro Paese.
Per quanto riguardava la Sicilia, ci era andata abbastanza bene, sapevamo di avere perso la Guerra ma, questo lo si sapeva già da un pezzo, tuttavia, quella casualità fortunatamente ci aveva risparmiato le rappresaglie, le sofferenze e le lotte fratricide, i tradimenti e le umiliazioni che afflissero e insanguinarono, ancora per qualche tempo, il Centro ed il Nord d’Italia.
L’ingresso trionfale delle truppe d’occupazione Anglo Americane, nel paese dove eravamo sfollati fu preceduto da un gruppuscolo di sedicenti partigiani, osannanti, “la liberazione” che sventolavano la bandiera rossa con la falce e il martello e cantavano l’inno comunista: “Bandiera Rossa trionferà”. Quella cosa non aveva senso, non c’era stata, infatti, in Sicilia alcuna lotta partigiana, perché non esistevano partigiani in Sicilia, né si poteva parlare quindi, di alcuna “liberazione”.
Esisteva, invece, sin dai tempi antichi di questa regione, la famigerata “Mafia” e, “radio fante” allora commentò che essa, grazie ai suoi adepti, in contatto con i conterranei emigrati e operativi negli Stati Uniti, con informazioni di natura geografica, logistica e militare, contribuì a facilitare lo sbarco in terra italica che poteva significare, per gli Alleati, perdite di uomini e mezzi se ci fosse stata una vera e propria difesa organizzata delle Forze Armate Italiane che, ormai allo sbando e con alcuni effettivi che, credendo che la guerra fosse ormai finita, avevano cominciato a “rompere le righe”.
Allora, anche mia madre, che si era ormai ristabilita aveva assistito, davanti la porta di casa, a quella pagliacciata indegna e incomprensibile, almeno per lei e, ricordo che pianse, come piange un bambino al quale è stato tolto qualcosa d’importante per lui. Eravamo stati sconfitti, avremmo dovuto stare a capo chino e piangere sulle nostre disgrazie e invece, c’era qualcuno e questi, purtroppo, era italiano, che plaudiva alla sconfitta in nome di un non meglio identificato, allora, simbolo bolscevico.
I Sovietici, infatti, pur essendo alleati con gli Anglo-Americani nella Guerra contro Germania, Italia e Giappone, non si capiva cosa c’entrassero con lo sbarco in Sicilia da parte delle truppe americane. Il fronte di guerra che più impegnò i Russi, dall’inizio alla fine dal punto di vista militare e strategico, infatti, fu quello con la Germania di Hitler.
Truppe sovietiche non giunsero mai in Italia e tanto meno in Sicilia, forse quella ostentazione di familiarità e di consenso per la patria di Stalin, aveva in sé i germi di quello che in seguito, politicamente, sarebbe stato il futuro partito comunista italiano.
Quel giorno, mia madre non riuscì a trattenere le lacrime, lei, una donna semplice e di modesta cultura, non sapeva di politica, né era in grado giudicare se la guerra che avevamo intrapresa era stata giusta oppure no, tuttavia, come donna italiana, sentiva tutto il peso morale di quella sconfitta che era di tutti gli Italiani i quali, con essa, avevano perduto la dignità e il carattere di un popolo libero e fiero della propria identità nazionale.
Da allora, come si usa dire, molta acqua è passata sotto i ponti, tuttavia, giova forse, sempre, fare qualche riflessione pertinente per chi, come me crede, ancora, nel valore degli ideali di Nazione e di Patria. A questo proposito, infatti, non è senza significato la famosa frase latina: “Vae Victis” “Guai ai vinti” e la storia lo insegna, dopo le guerre nelle sconfitte dei popoli, chi piange più amaramente sono le donne, che subiscono più di tutti le conseguenze della sconfitta, esse hanno perduto i propri mariti o i propri figli che sono morti, alla fine inutilmente, per una causa che forse si è rivelata sbagliata o ingannevole.
In quella circostanza, allora, per il rispetto dei propri caduti e per il senso di appartenenza alla propria Nazione, mentre alcuni salivano, vilmente, sul carro dei vincitori, tutti avrebbero dovuto osservare un comportamento dimesso ma, dignitoso, perchè osannare coloro che ci avevano sconfitto, invece, contribuiva a sacrificare e svilire gl’ideali di Patria e di appartenenza alla propria Terra, della cui difesa ciascuno dovrebbe essere, sempre, fiero ed orgoglioso, anche nella sconfitta.
Nb: La foto d’archivio, ha puro scopo indicativo.
Vittorio Sartarelli
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