Spettacolo e Cultura
Il Trionfo della Morte di Palermo
Del Trionfo della Morte di Palermo, un meraviglioso quanto misterioso affresco, oggi custodito all’interno della Galleria Regionale di Sicilia, presso Palazzo Abatellis, ho trovato due citazioni letterarie: una nel romanzo di Gesualdo Bufalino, Diceria dell’untore; l’altra nella biografia romanzata sulla vita del grande pittore messinese, Antonello, scritta da Silvana La Spina.
Ho deciso così di approfondire l’argomento, di saperne di più su un’opera sì siciliana, ma che ha al suo interno richiami multiculturali (aragonesi, napoletani, borgognoni). Così ho letto un altro libro, Il Trionfo della Morte di Palermo, allegoria della modernità, di Michele Cometa, e confesso di esserne rimasta oltremodo affascinata, ammaliata.
Il Trionfo della Morte di Palermo ha una storia lunga oltre seicento anni. Esso, infatti, venne realizzato intorno alla metà del 1400 all’interno del cortile dell’ Ospedale Grande e Nuovo, un grande palazzo appartenuto alla ormai scomparsa famiglia Sclafani. L’ Ospedale, voluto dal monaco benedettino Giuliano Majali, aveva lo scopo di riunire i vari piccoli ricoveri disseminati per la città in un’unica grande struttura.
Era il 1429 quando il progetto venne approvato. Governava in quegli anni re Alfonso V d’Aragona, detto il Magnanimo, il quale oltre a dare il via libera al progetto, dette all’Ospedale privilegi e finanziamenti.
Un grande ospedale a Palermo era certamente segno di innovazione e sviluppo, ma non dobbiamo dimenticare che quelli erano anche gli anni in cui la morte, travestita da peste, imperversava in tutta Europa giungendo anche in Sicilia, a vari intervalli, dal 1430.
Ma veniamo a questa grande opera dalle grandi dimensioni (6×6,42 metri).
Protagonista è, ovviamente, la Morte, uno scheletro che irrompe in un tipico giardino medievale, 《metafora del mondo》, scagliando le sue mortali frecce, in groppa a un cavallo completamente scarnificato, lo stesso cavallo che, a quanto pare, ispirò Pablo Picasso per la sua monumentale, tragica opera del 1937, Guernica.
Il giardino è della stessa tipologia di quelli che, in quegli anni, si trovano negli arazzi, con l’evidente differenza che la scena qui proposta non rappresenta gioiose scene di caccia. È un giardino disseminato di vegetazione ma, anche in questo caso, si tratta di una vegetazione carica di simbologie negative.
L’affresco presenta numerose scene ed è popolato da 34, fra uomini e donne, quattro cani, il cavallo della Morte e altri piccoli animali.
Sotto il cavallo nella sua folle corsa giacciono i corpi colpiti dalle frecce. Sono personificazioni dei vizi e, per lo più, si tratta di uomini di chiesa. Sono uomini adornati da ricchi panneggi e da copricapo 《indici dello status e della religione dei presenti》. Vi troviamo, a fronteggiarsi, due papi e poi un vescovo, un cardinale e tre predicatori (un francescano, un benedettino e un domenicano).
I monaci sono colpiti sulla bocca, in quanto colpevoli di falsa predicazione, mentre i cardinali, schiavi di peccati di gola, hanno i colli infilzati dalle frecce.
In mezzo a questa catasta di corpi si riconoscono pure tre uomini, rappresentanti le tre religioni: ebraica, musulmana e cristiana. Riconosciamo il rappresentante ebreo dall’ampio cappello di colore verde, colore simbolo della sinagoga; un alfaquì, simbolo della religione musulmana; e un avvocato con in mano il codice di Sassoferrato, simbolo della religione cristiana.
A sinistra è presente una folla di povera gente e mendicanti in preghiera, in attesa della inevitabile morte e, in mezzo a questa folla, nella parte superiore, si distinguono nettamente due volti con lo sguardo rivolto verso lo spettatore. Quasi sicuramente si tratta dell’autore dell’affresco e del suo assistente, riconoscibili anche perchè tengono in mano gli attrezzi del mestiere. Questa è l’unica cosa di cui abbiamo certezza, e di un’altra, cioè che quasi sicuramente l’autore non fosse siciliano. Nessun nome dell’autore è giunto a noi, tante ipotesi e tanti nomi sono stati fatti, ma nulla di appurato, nulla di certo. Di certo abbiamo solo quei due autoritratti anonimi.
Spostandoci sulla scena di destra troviamo tre donne, simili alle tre parche, che assistono al consumarsi della vita e intrecciano le mani tra loro, mentre un musico dallo sguardo arcigno suona un liuto. Sulla camicia del musico è possibile notare uno scorpione simbolo del male e del peccato.
Ripercorrendo l’affresco possiamo notare, in alto a sinistra, un uomo con un cane al guinzaglio dai denti aguzzi. L’uomo tiene la testa bassa, come se volesse rimanere indifferente a quanto sta accadendo intorno, come se volesse schivare le frecce. Mentre dalla parte opposta un falconiere volta le spalle allo spettatore ma soprattutto alla morte. Guarda il cielo oltre la fitta siepe, un cielo per niente limpido ma fitto di nuvole presaghe. E tiene una mano appoggiata alla fontana zampillante acqua, simbolo rimanente di quella vita a cui ci si aggrappa speranzosi mentre un musico suona lo strumento degli angeli, l’arpa.
Il Trionfo della Morte è, insomma, un dizionario colmo di simbologie, volte per lo più al negativo dato il tema trattato, ed è opera tanto affascinante quanto misteriosa, soprattutto una grande opera, testimonianza di fermento culturale in una Sicilia storicamente soggetta alle più svariate dominazioni.
Daniela Tania Linguanti
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