Storie di Sicilia
ALI’ TERME. L’AMBIENTE NATURALE NEGLI STUDI SCIENTIFICI E TESTIMONIANZE DEI VISITATORI
Nelle relazioni dei mineralogisti, naturalisti e cultori delle scienze in genere, attivi a partire dalla fine del Settecento, tra cui Deodato de Dolomieu, il conte Borch, Lazzaro Spallanzani, per tacere dei siciliani Gemmellaro, Ferrara, Alessi, Gioeni, Seguenza…, troviamo le basi di studi specifici relativi all’ambiente aliese che continuano ancor oggi e che trovano un valido punto di riferimento nel fiorentino Luigi Baldacci, autore nel 1886 di una “Descrizione geologica dell’isola di Sicilia” contenente osservazioni sulla stratigrafia della zona accolte ancora, tra gli altri, da Carmelo Cavallaro che ne riassume così i tipi geologici:
“1) quarziti rosee, scisti quarzitici giallastri, scisti violacei in alternanza contenenti nella parte superiore cornioli di gessi. Queste rocce sono presenti particolarmente lungo la fiumara di Alì;
2) scisti violetti e diaspri alternati a calcari bruni compatti, che si riscontrano in maggior misura al di là del piccolo vallone che scende da Alì;
3) scisti psammiti e anageniti violacei;
4) quarziti violacee generalmente ben laminate a superficie lucida ed a posta argillosa”.
Egli, aggiungendo a queste rocce, denominate nell’800 da Giuseppe Seguenza “Grovacca scistosa”, che sono fatte risalire da Guglielmo Jervis all’era paleozoica e dal Bressanon al periodo precambriano, non si lascia sfuggire l’occasione di definire Alì Terme “uno dei più importanti centri termali dell’isola” e di decantarne le lodi dicendo:
“l’amena posizione e il clima salubre, caratterizzato dalla mitezza degli inverni a cui si succedono estati calde, in quanto mitigate dalla brezza marina [che] rappresentano degli elementi complementari per la stazione termale ma essenziali per gli infermi che vi si recano per cura”.
Il Cavallaro traeva spunto per la sue classificazioni geologiche riguardanti Alì appunto dagli studi del Baldacci che nella sua opera si era espresso così:
“Alla Marina di Alì s’incontra una importantissima formazione costituita dal basso all’alto dai seguenti terreni che si traversano tutti risalendo sulla sponda sinistra della fiumara d’Alì: Conglomerati ed anageniti durissime a cemento rosso violaceo passanti a scisti quarzistici; Carniola con grandi lenti di gesso, che si scava per uso industriale e, finalmente, calcare cavernoso bruno affumicato. Tutta questa formazione, che non compare in nessun altro luogo dell’Isola, eccetto in un piccolo lembo di Gioiaosa Vecchia, si appoggia in discordanza sulla fillade e venne riferita dall’ing. Cortese all’epoca permiana per le analogie litologiche che essa presenta con terreni della stessa epoca in altre località”.
Il valente collaboratore del Baldacci ing. Cortese, per l’accuratezza dei suoi studi è pure menzionato da Enrico Mauceri a proposito di filladi:
“Notevole è inoltre la serie delle filladi, scisti lucenti di colore nero alle quali sono intercalati ora il granito, su cui poggia il paese di Savoca, ora roccia di felpato o felsite riconoscibile presso Castelmola che s’erge maestoso al di sopra di Taormina; ora altre rocce. Ed a proposito di filladi, ricordiamo le osservazioni del Cortese, cioè le analogie esistenti tra le filladi della Sicilia e della Calabria e quelle delle Alpi. Si aggiunga ancora che rapporti vi sono singolarissimi con l’isola d’Elba, il che le fa attribuire al siluriano.
Nei dintorni di Alì troviamo abbondanti scisti, arenarie e conglomerati violetti, e nella sua ampia fiumara quarzitici giallastri, scisti violacei. Di quanto è stato osservato geologicamente ad Alì, è molto arduo poter fissare l’età; però secondo gli studi dell’insigne geologo messinese Giuseppe Seguenza, tale terreno non rappresenterebbe che il permiano, cioè quello che tra le filladi è il trias. Tale sistema ci è rilevato da quella caratteristica contrada della provincia di Palermo, detta S. Benedetto, presso palazzo Adriano”.
Le filladi, considerate “rocce a grana molto fine dove i costituenti mineralogici non si distinguono ad occhio nudo”, in studi recenti sono state confermate peculiari della zona che con le altre singolarità presentate induce in modo determinante gli esperti a far riconoscere nell’Arco Calabro-peloritano, in cui essa si trova inserita, una sorta di “corpo estraneo rispetto al resto della catena appenninico-maghrebide” a motivo di caratteristiche appunto qui più evidenziate che gli conferiscono “notevole importanza nel quadro geologico del Mediterraneo occidentale” e che danno spunto a teorie spesso contrastanti ma dove la cosiddetta “Unità di Alì”, assieme a quella di Mandanici, ha un ruolo di primo piano.
Caratteristiche già nel 1902 riscontrate dai validi e competenti studiosi che avevano dato alle stampe la guida Messina e dintorni e che così le divulgarono.
“La provincia di Messina, come del resto tutta la Sicilia, ha attratto in ogni tempo l’attenzione dei naturalisti in genere e del geologo in ispecie; e di ciò bisogna cercare la causa delle sue ricchezze naturali e soprattutto nella geologica costituzione del suo sottosuolo.
Infatti ai panorami pittoreschi, alla limpidezza del cielo, la mitezza del clima, alla lussureggiante flora della provincia di Messina si aggiunge la serie dei terreni geologici che vi sono rappresentati quasi ininterrottamente dalle rocce cristalline massive dell’Arcaico alle più recenti stratificazioni sedimentarie del Quaternario, serie che ha tante attrattive pel geologo quante ne possono avere i panorami per l’artista.
[…] Lo scheletro della catena Peloritana è costituito da rocce della più antica formazione geologica quali: Gneiss, Pegmatiti, Quarziti, Calcari, Cristallini, Micaschisti e Schisti vari con qualche ammasso o vena di Granito, rocce quasi sempre più o meno alterate dagli agenti meteorici.
Tale catena pare sia stato il primo nucleo della Sicilia emerso dalle acque del mare nell’era primordiale; ed infatti i picchi più elevati di essa quali: Monte Ciccia, Monte Antennamare, Pizzo Bottino, Monte Scuderi, Pizzo Polo ed altri si presentano completamente privi di tracce di sedimentazione dei periodi geologici posteriori e constano per intero delle rocce arcaiche precedentemente cennate.
Due importanti formazioni seguono in ordine cronologico le rocce arcaiche che pur affiorando nei pressi della Città hanno estesi giacimenti nella provincia. L’una è la cosiddetta Formazione della Fillade costituita da schisti lucenti, da quarziti con vene di solfuri metallici quali i loro principali giacimenti nei bacini di Fiumedinisi e di Novara di Sicilia. Questa formazione è vastamente rappresentata nella parte S.O. della provincia ove ricopre quasi un terzo di essa. Seguono la serie di quarziti e conglomerati di Alì racchiudenti ammassi di gesso”.
Questi aspetti geologici, che i vari autori, come si vede, concordano nel considerare interessantissimi, hanno da un lato stimolato attività che con la produzione di diaspri e minerali metalliferi sono state a volte redditizie ma discontinue e con quella di gesso sono state meno remunerative ma più longeve, dall’altro, con la presenza di “quarziti rosee, schisti quarzitici giallastri, quarziti violacee, hanno conferito all’ambiente, assieme alla varia e lussureggiante vegetazione, peculiarità naturali e paesaggistiche così attraenti che i viaggiatori del passato non badavano a fatiche e rischi pur di affrontare questo “tratto jonico della costa fino a Messina ch’era unanimemente considerato il più suggestivo di tutta la Sicilia”.
L’AMBIENTE NATURALE E I SUOI TESORI: I GIACIMENTI METALLIFERI E LE ACQUE TERMALI
La feracità del suolo, la presenza delle miniere, l’efficacia delle acque termali, la singolarità del Monte Scideri sono argomento ricorrente e insistito in tutti gli scrittori che si trovano a parlare di Alì e che sono, come vedremo, più numerosi di quanto si pensi..
Nel Secolo dei Lumi, quel Settecento così fecondo di fermenti scientifici, mentre letterati e viaggiatori continuavano a decantare le suggestive bellezze delle contrade aliesi e nisane, erano le miniere con i loro miraggi di lucrosi affari ad attirare l’attenzione dei governanti di turno, austriaci e borbonici anzitutto, che al fine di ricavarne vantaggi sempre più consistenti stimolarono studi più sistematici e specifici che indirettamente contribuirono a diffondere una conoscenza più puntuale dei luoghi e sollecitarono approfondimenti che, anche se avulsi dalle immediate finalità economiche ancorate allo sfruttamento delle vene metallifere, ancor oggi proseguono, fornendoci notizie più precise sulla conformazione geologica di questa zona dalla struttura così caratteristica.
Succede così che abbiamo una copiosa messe di notizie d’argomento geologico proveniente da due branche di studi paralleli e complementari che, nella diversità degli scopi e interessi che li distingue, finiscono per integrarsi offrendoci del sito un quadro geomorfologico se non completo certo quanto più possibile dettagliato.
Nei primi decenni del ‘700, dalle relazioni positive predisposte, al termine di una campagna di esplorazioni e ispezioni coronata da risultati incoraggianti, dagli esperti fatti venire d’Oltralpe da Carlo VI d’Asburgo imperatore d’Austria, cha a seguito del Trattato dell’Aja, stilato nel 1720 a conclusione della tormentata guerra di Successione spagnola, aveva ottenuto il possesso della Sicilia, intitolandosene re fino al 1734, scaturì un potenziamento tempestivo e razionale dell’attività estrattiva, che fu compiuta da minatori isolani e tedeschi guidati dall’ing. Giovanni Trescier. Costui, in base allo scritto di padre Serafino, era
“vigilantissimo comandante dei minatori Sassoni, periti maestri ed altra gente necessaria per questo mestiere, anco paesana, accompagnata con guarnigione di milizia regolata, tutti al numero 300 circa, abitanti di Alì”
ed era pure “soprastante generale di tutte le miniere”, per le quali aveva fatto costruire vicino Fiumedinisi, fra l’altro, “un bellissimo molino assai curioso a vedersi […]” munito di congegni e attrezzature capaci di convogliare “alla piccola fonderia che lui ivi congiunta similmente fece” il minerale estratto a già adeguatamente selezionato.
Come Bartolomeo Baldanza e Maurizio Triscari hanno appurato, l’esperto tedesco provvide a costruire tre edifici per la fonderia e la frantumazione del minerale e sfruttando al meglio ogni risorsa raggiunse risultati positivi che indussero a eternare il favorevole evento apponendo sulle monete-medaglie coniate con l’argento e il rame prodotto dalle miniere nisane l’orgogliosa epigrafe Haec funditur ex visceribus meis, che capeggia sul bordo verso, raffigurante la Sicilia, di alcuni esemplari battuti a Palermo pesanti grammi 13,40 e rientranti nell’ambito della coniazione, effettuata nel 1732 e nel 1733, di due serie di monete del valore di 30 tarì, pesanti quasi 74 grammi e misuranti alcune mm 54 e altre 57 di diametro, riportanti sul recto l’effige del sovrano inserita in una iscrizione, mantenuta identica nelle due serie, e sul verso la raffigurazione della fenice circondata da iscrizione, diverse per testo in base alla serie.
La positiva esperienza fu ripetuta con un sovrano omonimo, figlio di Filippo V re di Spagna, cioè Carlo III di Borbone, che, subentrando all’imperatore austriaco sul trono di Sicilia, ne fu incoronato re a Palermo nel giugno del 1735.
Durante il suo regno, durato fino al 1759, erano attive ad Alì e Fiumedinisi ben 26 miniere e numerose altre nelle vicine contrade peloritane (Antillo, Savoca, Limina) ed anche in Calabria, tanto che le monete di argento e di rame da lui fatte coniare a Messina poco dopo il 1752, l’anno di provata più alacre attività, recano l’epigrafe Calabro Siculoque e viscere foenus.
Sono proprio questi momenti di prospera e intensa attività, conclusasi nel giro di pochi anni e non più ripetibile con gli stessi esiti in seguito, che ha sott’occhio fra Serafino di Alì, lasciandocene una descrizione entusiastica nel suo manoscritto.
L’AMBIENTE NATURALE NEI RESOCONTI DEI VIAGGIATORI
Le testimonianze di quanti, per puro diporto o per incarico sovrano, ebbero la ventura di percorrere le nostre contrade sono universalmente entusiastiche e nel riproporre un breve florilegio intendiamo rendere omaggio alla sincerità delle loro lodi e completare con spunti poetici e slanci emotivi il quadro scientifico tracciato dagli studiosi.
Già nel secolo XII l’arabo Ibn Gubair era rimasto affascinato dall’amenità e feracità dei monti Peloritani che “paion tanti giardini abbondanti di mele, castagne, nocciole, susine ed altre frutte”.
Suscitandoci spontaneo il collegamento, con l’accenno alle susine, col geografo contemporaneo Edrisi che per ordine di Ruggero percorre tutta la Sicilia e visita questo territorio lasciandoci il ricordo di una località chiamata proprio ‘Al Iggasah, ovvero “il susino”, che evidentemente traeva appunto il nome dalla numerosa o peculiare presenza di quest’albero.
E un altro arabo ancora, Alì ‘Ibn Sa’id, nato a Granata nel primo ventennio del sec. XIII, nel suo Kitab ‘al badi ovvero “Libro del principio delle cose” trattando della Sicilia afferma, ispirato dalla natura lussureggiante, che:
“nel lato orientale di quest’isola è il tratto di costiera chiamato l’Ala verde la quale tocca dalla parte di ponente il monte del vulcano dove arde e rode fin dai tempi remotissimi un gran fuoco”,
trovando conferma in questa poetica e insolita denominazione degli scritti dei suoi connazionali ‘Az Zuhri e Al Waqidi. Nei secoli seguenti la malia di questi luoghi continuerà ad affascinare i tanti visitatori che ne percorreranno le contrade.
Pietro Bembo, mentre da Messina si dirige a cavallo sull’Etna con l’amico Angelo Gabrieli, così nel 1493 le descrive:
“Durante il viaggio fino a Taormina non vedemmo nulla degno di memoria:infatti si costeggiava sempre la riva del mare. A sinistra si vedono subito comparire Reggio e la campagna calabrese, al di là di un braccio di mare dapprima breve, poi via via più largo, poiché dallo Stretto si passa a poco a poco al mare aperto. Da destra ci sovrasta una linea continua di colli, una zona tutta abbondantissima dei doni di Bacco e ancor oggi celebre per i vigneti mamertini, sebbene forse assai meno di una volta, quasi che lo stesso passar del tempo ne abbia consumato le lodi. Circa a metà del cammino, sopra una rupe a strapiombo del monte, è visibile da ogni parte ai viaggiatori il castello chiamato Niso, onde è derivato in Ovidio: Nisiades matres sicelidesque nurus. Gli abitanti chiamano regione di Niso anche tutta la valle sottostante”.
Ancora più dovizioso di riferimenti ai classici latini e greci è un secolo dopo il napoletano Giuseppe Carnevale che nella sua opera Historie et descrittione del Regno di Sicilia, già più sopra citata, in ossequio agli intenti corografici dichiarati, frammisti a dotte citazioni poetiche, mitologiche e storiche, dopo essersi soffermato sul vino mamertino e sul monte che “si noma Scuderio” famoso per un baratro, una voragine e il grande empito dei venti che soffiano, così prosegue:
“Indi continua il torrente Dionisio, oggi detto Nisso, dal castel di Nisso, da dove tiene l’origine, che mena l’arena, mescolata con oro e però da’ Greci ne fu chiamato Chrisothoas, ove sono ancora le Miniere d’Oro, Argento e Alume. Segue appresso il fiume Savoca, che dal Castello Savoco, un miglio sopra il lido situato, il nome ritiene, che se ne loda il vino Savocense, essendo quivi bellissime e vaghe vigne, extrahendosi il suo vino per ogni parte“.
Queste contrade incantano non solo i visitatori italiani, da Pietro Bembo a Giuseppe Carnevale, da Tommaso Fazello a Claudo Maria Arezzo, ma soprattutto quelli stranieri che a partire dal Settecento con la visita della Sicilia resero il loro tour d’istruzione e svago un vero Gran Tour che ogni rampollo di buona famiglia non poteva esimersi dal compiere se voleva coronare degnamente la sua preparazione.
E furono così numerosi che la riproduzione dei loro brani riguardanti le nostre contrade forma una serie che sarebbe impossibile riportare compiutamente senza valicare e di molto i limiti del presente lavoro, obbligandoci pertanto a presentarneuna drastica scelta tra i più significativi.
Il barone prussiano Johan Hermann von Riedesel, venuto tra noi nel marzo del 1767 e perciò considerato “l’avanguardia della lunga fila di viaggiatori che si recarono in pellegrinaggio in Sicilia negli ultimi trent’anni del XVIII secolo e, quindi, anche dei successivi, scrive, in preda ad uno struggente sentimento che evocando gli idealismi di Jean-Jacques Rousseau sembra anticipare i languori romantici, affascinato dalla natura incantevole:
“I campi attorno a Taormina sono belli da vedere e ben coltivati: vi si produce un buon vino rosso e olio. Da qui a Messina si produce, anche, molta seta con il ricavato della quale gli abitanti comprano i cereali che qui mancano. Si vede un’enorme estensione di ulivi e gelsi. I colli sono tra i più ameni che abbia visto in Sicilia. L’acqua sulla riva del mare è così chiara ch si può contare ogni sassolino sul fondo.
La luna illuminava con i suoi raggi questo panorama e questo mare era così calmo da sembrare fermo, gli usignoli cantavano sovente ed io provai un tale piacere estetico che mi procurò una segreta e dolce malinconia”.
Partick Brydone, giunto nel 1770, annota:
“La strada che porta da Messina a Giardini è assai romantica. Segue la costa per l’intero percorso e domina la vista della Calabria e della parte meridionale dello Stretto, gremita di sciabecchi, galee, galeotte e da un’infinità di barche da pesca. A mano destra la vista è chiusa da alte montagne sulle cui vette sono state costruite numerose cittadine di una certa importanza e dei villaggi che con le loro chiese e campanili rendono il quadro più pittoresco. […] Era su questa splendida costa che le figlie di Apollo, Phaetusa e Lampetia, pascevano le greggi del dio e fu per aver catturato questi animali sacri che i compagni di Ulisse trovarono la morte e l’eroe stesso fu poi perseguitato da mille sventure”.
Dimentico dei richiami mitologici ma attento agli aspetti naturalistici visti da un’angolazione scientifica un emulo e ammiratore di Riedesel, Joann Wolfgang Goethe, qui di passaggio proveniente da Taormina, che l’estasiò ispirandogli la “Nausicaa”, mentre è in cammino verso Messina, lascia scritto, sotto la data 8 maggio 1787, nel suo Viaggio in Italia, con un riferimento puntuale al Nisi ed uno più vago al Capo Alì, un appunto che ci sembra opportuno ripetere:
“A sinistra s’incontrano scoscese rocce calcaree che si fanno sempre più colorate e formano belle insenature. Segue poi un tipo di pietra che potrebbe dirsi schisto argilloso o grovacco. Nei torrenti si trovano già ciottoli di granito. I gialli pomi del solano, i rossi fiori d’oleandro fanno lieto il paesaggio. Il Fiume Nisi rotola schisti micacei come anche i torrenti incontrati in seguito.
Tempestati dal vento levante abbiamo cavalcato per tutta la giornata lottando con l’acqua: a destra il mare in burrasca e a sinistra le pareti rocciose che l’altro ieri avevamo osservato dall’alto. Abbiamo attraversato innumerevoli torrenti; uno, il più grande, il Nisi, porta l’onorevole titolo di fiume. Queste acque tuttavia, e il materiale che rotolano giù, erano più facili da vincere che non la violenza del mare infuriato che in molti punti della strada si abbatteva fin le pareti di roccia e ritornava a spruzzi su di noi. Guardandolo era magnifico. Il raro avvenimento ci ha fatto sopportare i disagi. Ciò nonostante non ho mancato di fare le mie osservazioni mineralogiche. I colossali roccioni calcarei si disgregano e precipitano a terra. Le parti più cedevoli vengono erose dal moto ondoso mentre le rocce di materiale misto, più dure, resistono, così che tutto il litorale è coperto da pietre focaie di tutti i colori simili a selci; di queste raccogliemmo numerosi esemplari”.
Quei “colossali roccioni calcarei”formano uno sperone roccioso che si protende sul mare disseminato di scogli e mostra da lontano la sua sagoma resa inconfondibile dai suggestivi ruderi di una torre cilindrica, sul finire del ‘500, epoca di incursioni barbariche, da Camillo Camilliani e Tiburzio Spannocchi, regi architetti militari, considerata “molto necessaria” per la sua funzione difensiva di punto di avvistamento, notevolmente strategico perché “avvista da molte parti et si corrisponde d’una parte la Scaletta e dall’altra S. Alessio”.
Esso è Capo Alì, l’antico Capo Grosso, che chi proviene da Messina deve superare per giungere all’abitato di Alì Terme e che il Marchese di Ormonde, dopo aver lasciato la città peloritana attraverso la spaziosa via chiamata “dromo”, così descrive nel 1830:
“Noi superammo Contessa, Bordonaro, Larderia, e qualche altro villaggio, dove gli abitanti si guadagnano da vivere con il commercio della seta; e durante la fermata di pochi minuti vicino Scaletta, trovammo il termometro sopra i novantaquattro gradi Fahrenheit. Poco oltre c’è Capo Grosso, che, con Capo dell’Armi, sulla costa opposta della Calabria, è considerato il termine del Faro o Stretto di Messina.
Dopo aver camminato sedici miglia lasciammo la strada, e salimmo un sentiero molto ripido e aspro, che conduceva verso Alì, un paese sul pendio di Monte Scuderi”.
NOTA: I testi sono tratti dal libro “ALI’ TERME E I SUOI BAGNI fra natura e mito, storia e letteratura” di Rocco Lombardo, Prima edizione Aprile 2003. Proprietà letteraria riservata all’autore.
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