Storie di Sicilia
“OMERTA’, E’ LA SOLIDARIETA’ ISTINTIVA E BRUTALE FRA TUTTI GLI AFFILIATI DELL’ONORATA SOCIETA’
L’ “omertà” è la solidarietà istintiva e brutale fra tutti gli affiliati dell’”onorata società” -eufemismo che tanto ha giovato ai boss per auto accreditarsi virtù e valori positivi che la mafia non ha mai avuto-, in virtù della quale ogni singolo mafioso non si sente mai isolato, nemmeno quando è detenuto, e dovrà scontare una lunga pena; è la certezza di poter contare sull’aiuto e la protezione degli “amici degli amici”, come vengono chiamati quei notabili parlamentari e quei politici al potere, quegli alti burocrati e non pochi professionisti “non affiliati”, sempre disponibili a fare “un favore da amico” a un “amico”; è la certezza di poter contare sull’aiuto e sulla protezione di tutti gli affiliati, indipendentemente dal loro ceto di appartenenza e dalla loro collocazione nella società; è la fiducia nei poteri dell’organizzazione e nei suoi capi, i quali, nel caso il capocosca o il “picciotto” dovessero essere chiamati a dare conto alla giustizia per i loro misfatti, riusciranno a trarli fuori dai guai.
Fino a qualche decennio fa, la parola “omertà” non ricorreva in tutti i vocabolari, anche se nel mondo romano antico c’era un reato simile prefigurato come “improbo rum mutui silentii consensus”. Il dizionario Palazzi ne dà la seguente definizione: “Voce del dialetto siciliano, legge della malavita che obbliga gli affiliati alla mafia alla solidarietà nell’offesa e nella difesa, ostacolando in tutti i modi la ricerca della verità per la punizione dei mafiosi”.
Dai mafiosi questa forma di solidarietà a favore di altri affiliati viene praticata in due modi: con il mutismo e/o lunghi discorsi sconclusionati, al limite della demenza, per lasciare il dubbio se quello che hanno detto è vero e spontaneo o irreale e inventato.
Quando il giudice cerca le prove per condannare l’imputato, il testimone mafioso non ha visto nulla, non ha udito nulla, non sa nulla: “Nènti sàcciu, nenti aiu vistu e nènti aiu dittu, e chìddu c’aiu dittu è dittu, comu non dittu” (niente so, niente ho visto e niente ho detto, e se quel che ho detto è da considerare dichiarazione, come non detto), ha dichiarato il messo comunale Angelo Stravento detto “ngilì-ngilò”, testimone in un processo nel quale era imputato Calogero Vizzini, detto “don Calò”, allora capo della mafia del Vallone, la zona ad ovest della provincia di Caltanissetta. Quando, invece, il testimone mafioso depone a favore dell’imputato suo collega mafioso ha visto tutto, ha udito tutto, sa tutto.
L’omertà, quindi, è il diniego della verità di fronte alla giustizia, cioè la maglia rotta della legge attraverso la quale il difensore dell’imputato – quasi sempre “fiancheggiatore” o affiliato alla “onorata società” – riesce a seminare dubbi in virtù dei quali certi giudici – anche questi “fiancheggiatori” forti del loro insindacabile convincimento, pronunciano sentenze per insufficienza di prove anche quando le prove trasudano dai fascicoli personali di incalliti criminali.
Sono questi i motivi per i quali l’omertà deve essere ritenuta un’arma mafiosa tra le più potenti, addirittura più nefasta della lupara, poiché con la lupara i mafiosi eliminano i loro nemici e regolano i loro conti al loro interno, mentre con l’omertà offendono e si difendono, e riescono a farlo in maniera così perfetta e così efficace da gabbare la giustizia.
L’omertà, inoltre, è la rappresaglia diretta o trasversale perpetrata dagli “amici” in libertà per punire la persona che, dicendo il vero e facendo il suo dovere di probo cittadino, ha deposto la verità, facendo condannare un mafioso. E quanto più feroce e spettacolare sarà la rappresaglia, tanto più efficace sarà l’esempio per quanti vorrebbero e potrebbero collaborare con la giustizia.
In questo caso la mafia applica una delle più feroci massime della cultura mafiosa, secondo la quale “cu è orbu, surdu e taci, campa cent’anni ‘mpaci” (chi è cieco, sordo e non parla, campa cent’anni indisturbato). Altra forma di omertà mafiosa, infine, è la rinuncia a denunciare alle autorità un’offesa subìta, anche quando si tratti dell’omicidio di un congiunto. In questo caso scatta il principio omertoso dell’autogiustizia per cui l’ “uomo d’onore” non deve subire offesa o affronto senza reagire e deve essere pronto a farsi giustizia da sé, pena la perdita del prestigio, dell’onore, del rispetto. Ne consegue che, per il mafioso, l’omertà è un obbligo che viene assunto nel momento stesso in cui si presta il giuramento, un dovere che viene richiesto non solamente agli affiliati, ma anche ai “fiancheggiatori”, ai quali viene affidato il compito di ostacolare in tutti i modi e con tutti i mezzi la ricerca della verità per non fare punire dalle leggi i mafiosi.
“Fiancheggiatori”, quindi, sono i notabili politici ed i parlamentari, i cosiddetti “referenziati” a Roma e a Palermo, sempre pronti a intervenire, con le dovute cautele, nelle giuste sedi, per fermare, insabbiare processi diventati inevitabili in maniera tale che le sentenze di assoluzione per insufficienza di prove vengano pronunciate in fase diversa da quella emotiva creata dal crimine; “fiancheggiatori” sono quei giudici dall’assoluzione facile e gli altri, abili nella ricerca del pelo nell’uovo, che annullano sentenze per vizi formali anche quando i fascicoli forniscono prove schiaccianti della colpevolezza di feroci ed efferati criminali.
“Fiancheggiatori” sono quegli avvocati che, travalicano ogni principio deontologico, si spingono fino a procurare testimoni falsi, manovrano tra le “scartoffie dei palazzacci” e spesso fanno scomparire documenti probanti a carico degli imputati; “fiancheggiatori” sono quei medici che curano le ferite dei “picciotti” senza informare le autorità competenti; “fiancheggiatori” sono quanti, abusano della loro posizione sociale e del loro censo, si adoperano per “favorire degli amici” e ricoverano nei loro palazzi di città o nelle loro ville di campagna i banditi latitanti (ad esempio, è stato più volte scritto che una nota principessa avrebbe offerto rifugio in un suo palazzo della vecchia Palermo al bandito Salvatore Giuliano, mentre un’altra nobildonna avrebbe ospitato Luciano Liggio, che, in sedici anni di “onesta latitanza”, riuscì ad accumulare alcuni miliardi; “fiancheggiatori”, infine, sono (o sono stati) quei parroci che hanno ricoverato latitanti nelle canoniche delle sacrestie.
Tutti costoro, e quanti altri, coscientemente, “ostacolano in tutti i modi la ricerca della verità per impedire la condanna dei mafiosi”, costituiscono il “terzo livello”, cioè la parte non individuabile della mafia formata da persone non direttamente affiliate ma sempre disponibili a commettere atti illegali o comunque azioni contrarie alla morale e all’onesto vivere civile per favorire individui noti come mafiosi; “terzo livello” non meno nefasto di quello dei boss (il secondo), mentre il primo è costituito dalla manovalanza armata, cioè dai killer, la maggioranza dei quali giovani al servizio della “onorata società” convinti che, comunque, andranno le cose, gli “amici” riusciranno a tirali fuori dalle maglie della giustizia.
Purtroppo, spesso anche in Sicilia, l’omertà viene confusa con il silenzio praticato dai siciliani come forma di autodifesa in un ambiente ove lo Stato è assente o, se presente, impotente ad intervenire. L’omertà che si è abituati a considerare figlia della paura, in realtà è la forza coesiva dalla quale deriva la paura che la mafia incute ai siciliani. Il silenzio, invece, è la naturale conseguenza della constatazione dell’inutilità di collaborare con la giustizia, dal momento in cui i denunziati riescono quasi sempre a farla franca e a ritornare nelle piazze dei paesi con maggiore protervia.
FRA GLI UOMINI CHE HANNO COMBATTUTO LA MAFIA E CHE PER CIO’ SONO STATI ASSASSINATI
Giuseppe Impastato: giovane sociologo, impegnato in una impari lotta contro un gruppo di mafiosi trafficanti di stupefacenti nella zona di Palermo e di Trapani, ridotto a brandelli dallo scoppio di una bomba. I suoi stessi carnefici riuscirono a persuadere gli inquirenti di una “diversa versione” dell’accaduto fino al punto di farla inserire negli atti delle indagini: lo scoppio dell’ordigno sarebbe stato un infortunio provocato dallo stesso Impastato nel tentativo di effettuare un attentato nella strada ferroviaria Trapani-Palermo.
Boris Giuliano: vicequestore di Palermo, autore delle difficili indagini del 1964-1965, indagini concluse con l’arresto di 114 mafiosi siciliani e siculo-americani, fra i quali Luciano Liggio, Salvatore (Totò) Riina, Salvatore Greco alias “il Lungo”, Salvatore Greco alias “Cischitieddu”, Rosario Mancino, Gaetano Badalamenti, Pietro Vernego, Pietro Torretta alias “la Belva”, Frank Coppola alias “tre dita”, Frank Garofalo, John Bonventre, John Prizziola, Jimmy Quasarano, Tommaso Buscetta, e simile compagnia, tutti detenuti, processati a Bari per legittima suspicione e, inaudito a dirsi, tutti assolti.
L’assassinio di Giuliano, per la mafia, non era solo “un omicidio preventivo” per eliminare in tempo l’abile poliziotto il cui intuito e la cui capacità di interpretazione dei fatti e degli indizi (si pensi, ad esempio, al sequestro nel 1965, nell’aeroporto di Palermo, di una valigetta contenente 500.000 dollari) costituivano minaccia e pericolo per tutta l’organizzazione criminosa operante tra Palermo e Trapani, collegata con i rappresentanti di stupefacenti sparsi su tutto il territorio nazionale e con quelli asiatici e sudamericani: era anche un punto di orgoglio dal momento in cui il vicequestore di Palermo -ripercorrendo, in senso inverso la via tentata, senza successo, dal leggendario tenente commissario di polizia americano Joseph Petrosino, (NELLA FOTO), ucciso a Palermo il 9 maggio 1909- era sul punto di scoprire i collegamenti a tutti i livelli e, quindi, di risalire ai vertici dell’organizzazione. Di qui la tempestiva eliminazione dell’abile poliziotto siciliano all’atto stesso in cui stava per risolvere i nodi tra i diversi livelli dell’onorata società.
Giovanni Falcone: l’efferata strage di Capaci, nella quale sono stati barbaramente assassinati il giudice Falcone, la moglie, Francesca Morvillo, anche lei magistrato, e tre giovani agenti di polizia di scorta, ha scosso l’opinione pubblica nazionale sollevando inquietanti interrogativi negli ambienti della magistratura e in quelli dei tutori dell’ordine, come se si fossero all’improvviso aperte immense finestre sul torbido e feroce mondo della mafia, sulle sue connessioni e complicità e su tutto il potere mafioso.
La strage di Capaci è stata dunque il classico delitto preventivo, studiato e preparato da tecnici degli esplosivi, eseguito quando i poliziotti boss si erano resi conto che Falcone, modificando l’indirizzo seguito dalle indagini contro la mafia armata, si apprestava a sollevare i veli politici che coprivano la mafia, per tagliare i legami tra essa e i pubblici poteri, tra boss della mafia e politici boss.
Paolo Borsellino: E’ stato assassinato, assieme alla sua scorta, mentre si apprestava a varcare la soglia della casa della sua vecchia madre, alla vigilia della nomina a capo della Superprocura, del cui vertice avrebbe certamente rivoluzionato comportamenti e decisioni su indagini in corso e su altre da effettuare, in un momento come l’attuale in cui accordi spartitori e rapporti finalizzati a rapidi smisurati arricchimenti -che hanno il sapore di bottini di cosche- si insinuano sempre più nel potere politico tra le sponsorizzazioni di candidati “amici degli amici”.
Borsellino, come Falcone, si era fermato alla sola “mafia armata” di fronte alle minacce dei pentiti di non più collaborare con la giustizia se avessero continuato ad insistere sui rapporti tra mafia e notabili politici. Da capo della Superprocura, chiamato a condurre l’opera alla quale stava per essere assegnato il suo collega e amico Falcone, avrebbe affrontato la lotta alla mafia partendo dal punto di fronte al quale l’Antimafia si era fermata, cioè togliere i nodi tra mafia e pubblici poteri.
NOTA: I testi sono tratti dal libro “OMERTA’ DI STATO da Salvatore Giuliano a Totò Riina” di Michele Pantaleone. Prima edizione, Maggio 1993.
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