Storie di Sicilia
ALI’ E ALI’ TERME: UN LEGAME ANTICO (testimoniato dai manoscritti di frà Serafino)
STORIE DI SICILIA – Alì Terme, la cittadina che ai suoi celebri bagni appena dal 1954 deve l’attuale denominazione, come Comune autonomo non ha neppure un secolo di vita, essendo stato riconosciuto tale, col nome di “Alì Marina”, solo nel 1910 e nel 1954 ridenominato Alì Terme.
In precedenza il luogo, nato come “Marina di Alì”, era una “frazione”, o meglio una borgata, dell’antico paese di Alì che si estende a mezza costa sulle retrostanti colline peloritane e del quale rappresenta il naturale sbocco al mare, condividendone da sempre in maniera indissolubile e inevitabile le remote origini, il nome, le vicende, i destini fino alla separazione amministrativa avvenuta appunto nel 1910.
Il distacco, sancito dalla legge n. 394 del 30 giugno di quell’anno, non fu indolore, come narra, con la serena obiettività che solo l’intervallo di quasi mezzo secolo dagli avvenimenti sa ispirare, Antonio Baratta, uno dei suoi fautori più convinti, in un manoscritto del 1959 in cui rievoca non solo il clima di tensioni che lo provocarono e accompagnarono per diversi anni ma pure l’iter avventuroso che gli seguì per raggiungerlo e il generoso interessamento delle autorevoli personalità che coinvolse nel progetto dell’agognata indipendenza amministrativa.
Sopiti i disappunti, colmate le animosità, pervenuti ad una divisione del territorio e del patrimonio comunale soddisfacente entrambi i paesi, la separazione per il neonato Comune di Alì Marina non rappresentò una drastica e netta censura con il lungo passato di gloria e decadenza, di fortune e di stenti, vissuto all’ombra della “madrepatria”, che anzi per una paradossale inversione di parti dal 1928 al 1946 ne è diventata a sua volta “frazione”; né ha originato una preclusione a proseguire con essa un pacifico cammino volto a future proficue realizzazioni di attività, progetti, programmi che coinvolgono e interessano le due cittadine joniche.
La contiguità geografica ne ha condizionato la storia tanto che non ci si può esimere nel tracciare quella del centro rivierasco dal riallacciarsi a quella del centro collinare, entrambi uniti per secoli in una sorta di simbiosi, già evidenziata nell’opera lasciata inedita dal settecentesco monaco francescano padre Serafino di Alì, alla quale chiunque si accinge a parlare del passato delle due cittadine non può fare a meno di riferirsi, attingendo a piene mani, almeno per le notizie più antiche.
Le nostre “radici” nel racconto di frà Serafino di Alì e di altri scrittori.
Il manoscritto che il cappuccino, al secolo Giacomo Antonio Morabito, finì di scrivere il primo giorno di maggio del 1754, anche se noto ad una ristretta cerchia di studiosi contemporanei e in particolare all’abate catanese Vito Amico e Statella, che gliene aveva sollecitato la lettura (e ispirato forse la stesura) per ricavarne notizie utili da inserire nel monumentale Lexicon Topographicun Siculum che andava compilando, è rimasto inedito fino al 1908, quando, fortuitamente e fortunatamente venne in mano allo studioso Gaetano La Corte Cailler che finalmente lo pubblicò sulle pagine dell’Archivio Storico Messinese, dove tuttavia rimase ancora destinato alla conoscenza di un limitato ambito di eruditi.
Comunque sia, l’intervento del La Corte Cailler, che corredò la pubblicazione di numerose opportune note, di una illuminante prefazione, di pertinenti fotografie e di una dotta appendice, è stato davvero provvidenziale, dal momento che del manoscritto originale oggi si ritiene perduta ogni traccia, temendosene anzi lo smarrimento se non la distruzione.
Lo studioso messinese, inoltre, nel preoccuparsi di arricchire la stampa del manoscritto “con la maggior copia di notizie” che potè raccogliere, riuscì a ricostruire per grandi linee la biografia dell’Autore, che considera “cronista minuzioso e cittadino amorosissimo del suo paese”, avallandone in tal modo autorevolmente il grado di attendibilità e di serietà del lavoro, di cui nel contempo amplia i contenuti fino ai suoi giorni, facendolo diventare a sua volta per gli avvenimenti a noi più vicini una fonte insostituibile di preziosissime notizie.
Prendendo la mosse da quanto aveva scritto Placido Samperi nella sua opera Messana Naturae Prodigium edita posuma a Messina nel 1742, padre Serafino accoglie l’ipotesi, avanzata dallo scrittore messinese, di un’origine greca dell’abitato di Alì e, nel riportare l’affermazione che
“Aly ab Aelide insigni Graeciae Urbe nomen desumpsisse quae Elis etiam dicta est”,
ripete che Alì è stata “una ben nobile colonia” fondata dai greci dell’Elide, i quali in omaggio alla omonima città madrepatria chiamarono con lo stesso nome la città fondata sulla costa ionica siciliana
“in questa Marina di Alì, vicino al promontorio Argeno detto Capo Grosso, nella cima e piano del monte, chiamato oggi Migliorvino, seru Mollerino”.
Come ripetuto dagli scrittori successivi, la prima sede dell’abitato di Alì fu dunque il panoramico e aprico colle Mollerino, “Muddirinu” nella parlata locale, ma pure in qualche carta topo grafica o pagina di scrittore denominato Migliorvino, Malarino, Mularino… Il cappuccino afferma che quel primo sito, ai suoi tempi ricadente nel fondo di proprietà di Salvatore Stagno, aveva avuto modo di ammirare
“in quello spazioso piano alcuni resti e vestigi di antichità come ad esempio: un ben forte pavimento fatto a mosaico, con pietre varie e diversamente lavorate; fondamenta massicce, mattoni antichi, gallerie sotterranee”
Che con “l’antico avello”rinvenuto nel 1746 e
“i di sotto antichissimi bagni, ai piedi della montagna ed altri edifici diroccati nella scoscesa”
Inducevano il frate a collocare verso il 638 a.C. la fondazione di Alì, appena quasi un secolo dopo quella della vicina Naxos, risalente al 734 a.C., anno in cui alcuni greci provenienti da Calcide dedussero in Sicilia quella loro prima colonia.
I Calcidesi, cui si deve anche la fondazione di Catania e Lentini, provenendo da Naxos o da Zancle frequentarono pure le contrade nisane, già abitate dalla preistoria, attirati dai metalli che vi si trovavano e nella cui lavorazione erano esperti.
Non è improbabile che essi contribuirono a popolare il territorio circostante, in coesistenza con quegli elidesi che la tradizione considera fondatori di Alì, suggestionata da labili appigli etimologici e non sostenuta da elementi più consistenti, che scavi, studi e ricerche potrebbero fornire, arrivando a sfatare o confermare le acquisizioni per ora possedute. O magari correggerle, considerando anche l’ipotesi che Alì possa essere una delle tante Alese che si trovavano in Sicilia, tra cui la più nota è l’Arconidea corrispondente all’odierna Tusa, fondata nel 402 da Arconide tiranno di Erbita.
I SOPRUSI DELL’ABATE DI ITALA
Con l’avvento dei Normanni, si sa che quando Ruggero fonda l’Abbazia di Itala le assegna in possesso tra i tanti territori anche il casale di Alì, ormai fiorente nella sede là dove ancor oggi si estende, trasferitavi dai cittadini che dal Monte Scuderi erano stati “costretti a partirsi, respinti dagli impetuosi e continui freddi, intollerabili, e da altre inclemenze dell’aere”, a sentire il solito padre Serafino. Siamo già nella terza fase della sua storia, che vede il paese soggetto all’abate di Itala, subendone vicissitudini fatte spesso di soprusi che incitano nel corso dei secoli e in diverse occasioni gli alioti ad affrancarsi in qualche modo dalla dipendenza dell’abate che, da quando è divenuto Comendatario, ha tutto l’interesse acsfruttare economicamente la popolazione a lui soggetta.
Il primo episodio noto di intolleranza si verifica nel 1512, quando l’Abbazia era stata concessa in commenda al Vescovo di Tortosa Alfonso d’Aragona, figlio di Federico il Cattolico. Contro i suoi amministratori, colpevoli di ostacolare il libero commercio e lo sviluppo dell’industria ma soprattutto di favorire la “trasmigrazione delle rendite abbaziali verso la Spagna” compiendo mille angherie, il popolo di Alì, esausto, insorse al grido di “libertà! Libertà!”, insolito e prematuro per i tempi e, comunque “tanto lontano da ogni tradizione dei movimenti popolari siciliani”, come riporta stupito dell’audacia Carmelo Trasselli, tra i primi lettori negli ingialliti documenti d’epoca dell’inaudito evento.
Nei secoli seguenti l’insofferenza si acuì, sfociando in liti giudiziarie frequenti e spesso pluridecenali, come quella lacerante relativa ai diritti sulla sanza dei trappeti, ben quattro di proprietà abbaziale, avviata sin dal 1718 e giunta a un punto di esasperazione tale che nel 1799 fu presentata l’ardita richiesta a Frdinando III di Borbone di consentire il passaggio al regio Demanio della Terra di Alì per liberarla dalla tirannia del “barbaro” Abate Commendatario del tempo, don Marco Antonio Buoncompagni.
Passaggio che si verificò dopo il 1812, ma non per intervento del sovrano ma semplicemente in forza delle leggi che imposero al clero e al patriziato siciliano la rinuncia ai diritti e ai privilegi feudali. Nonostante le angustie che la lite comportava, i cittadini di Alì conducevano una vita esemplare di lavoro e devozione, dediti alle colture tipiche della vite, dell’olivo, degli agrumi; all’allevamento del baco da seta; alla produzione mineraria, evitando con stenti e fatiche quelle condizioni di estrema miseria allora non tanto rare.
LA CHIESA MADRE DI ALI’ (nella foto)
La religiosità era molto sentita, come provano l’esistenza di confraternite, la presenza di chiese e conventi, la celebrazione di cerimonie in onore dei tanti santi, prima fra tutti Sant’Agata, cui era dedicata la Chiesa Madre, che la pietà popolare aveva negli anni arricchito di tante opere d’arte, essa stessa un capolavoro d’architettura di ispirazione rinascimentale, evidenziata da tanti dettagli e soprattutto dalla cupola di derivazione michelangiolesca, votata a connotare con la sua presenza il paesaggio urbano, su cui emergeva maestosa sovrastando il mareggio dei tetti delle umili case appoggiate tra loro quasi a sostenersi sul pendio scosceso del colle Sant’Elena a fare da corona ai palazzetti dei nobili Famà e Maggiore, indicativi nella sobria struttura illeggiadrita da cortili adorni di fontane di quella corrente artistica che le opere del Montorsoli e di Polidoro da Caravaggio irradiavano dalla vicina Messina.
E che riverberava i suoi influssi nelle numerose chiese che punteggiavano il tessuto urbano, come, per citarne alcune, quella delle Anime Sante del Purgatorio, di San Giuseppe, di Sant’Agata la Vetere, di San Nicolò, di Sant’Antonio di Padova, della Madonna della Grazia, di Santo Zaccaria, di San Marco, dotate di campane, di statue e quadri, di artistici arredi liturgici, e delle quali come di altre, oggi in alcuni casi rimane solo il ricordo.
NOTA: I testi sono tratti dal libro di Rocco Lombardo “Alì Terme e i suoi Bagni fra natura e mito, storia e letteratura”, Prima edizione Aprile 2003. (Riproduzione riservata).
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