Storie di Sicilia
Santa Teresa di Riva. Da “Marina di Savoca” a Comune autonomo
STORIE DI SICILIA – Fino al secolo scorso, questa cittadina -la più popolosa tra quelle dell’Agrò ed anche della provincia di Messina, compresa tra il capoluogo e Taormina- è stata una frazione del Comune di Savoca e veniva indicata come “Marina di Savoca” dove i pescatori svolgevano la loro diurna attività, ma abitavano il quartiere S. Rocco di Savoca.
Le vicende storiche della “Marina di Savoca” sono quindi, interamente riconducibili a quelle dell’antica Baronia di cui è stata parte integrante ma, quanto a notizie storiche antecedenti l’anno 1000 e risalenti ad Appiano, nel sito dove oggi è S. Teresa di Riva pare che sorgesse la cittadina di “Phoinix” (o “Tamaritio” o “Palma”) di origine fenicia e di cui si ha notizia già nel 314 a. C. per una spedizione punitiva di Agatocle, tiranno di Siracusa, che inutilmente tentò di ridurre ad unità la Sicilia greca.
Sulla ubicazione di Phoinix esistono pareri discordi perché non si esclude che abbia potuto trovarsi nella contrada Lacco di S. Alessio Siculo o nelle contrade Catalmo e Botte di Santa Teresa di Riva. Qualunque però sia stata la posizione di questa cittadina rimane indiscutibile il fatto che in questa località ha trovato rifugio l’esercito di Sesto Pompeo in attesa della battaglia con Ottaviano (36 a. C.) il quale distrusse la flotta pompejana, impadronendosi di ben 160 vascelli e costringendo lo stesso Pompeo a fuggire prima verso Messina e poi verso l’Oriente a meditare e preparare la rivincita.
La “Marina di Savoca” seguì le sorti di Savoca che la utilizzò strategicamente per disporre anche le sue forze militari sfruttando al meglio le torri saracene che ancora oggi, in parte, si conservano. Savoca, sede di vicariato Archimandrita, aveva la gestione e il comando di un vastissimo territorio, comprese le terre del torrente Agrò e la marina, sicchè, mentre per le campagne si formavano piccoli casali abitati dai contadini, sulla spiaggia cominciavano ad elevarsi case di pescatori e magazzini dei commercianti (la fenicia Phoinix più che una cittadina sarebbe stata una stazione commerciale di appoggio alle attività fenicie).
Il commercio e le attività marinare rendevano sicuramente bene, ma il timore dei pirati che infestavano il mare inducevano i pescatori ad abitare sui monti e particolarmente nel quartiere S. Rocco (o dei marinai) di Savoca. Ciò avrebbe spinto l’Archimandrita, che intendeva alimentare la pesca e il commercio sul mare ad offrire ai cittadini di Savoca le terre poste sulla marina “franche da qualsiasi onere”.
Questo contribuì notevolmente ad accrescere l’abitato sulla spiaggia. Fra le altre famiglie si stabilì tra il “rio” Porto Salvo ed il torrente Savoca (che separa S. Teresa di Riva da Furci) un grande casato di nome “Bucalo” ma, malgrado l’impegno profuso e la fiorente economia delle attività marinare, commerciali e contadine, questo villaggio non riusciva ad avere grandi sviluppi perché “poteva di più la paura delle incursioni piratesche”.
La famiglia Bucalo resistette alle incursioni ed ampliò il suo patrimonio dei beni immobili che, verso la fine del 1500, pervenne ai sacerdoti Benedetto e Paolo Bucalo i quali lasciarono tutti i loro averi ai Gesuiti che, intanto, andavano spargendosi per la Sicilia e che, proprio accanto alla Chiesa ed alla adiacente torre, vi costruirono un ospizio.
Questa iniziativa avrà certamente incoraggiato anche altre famiglie o casati, perché, subito dopo, sorsero parecchi palazzi tra cui un “Palazzo nero”, così detto dal colore delle sue mura, il “Palazzo bianco” della famiglia Castelli, passato poi ai Principi di Mola, naturalmente in contrapposizione al “nero”, ambedue sulla sponda sinistra del torrente Savoca, in territorio oggi di Furci, ma allora della “Marina di Savoca” (XVII secolo).
Un altro palazzo, “Palazzo D’Alcontres” comprendeva la chiesetta di Porto Salvo, mentre altri due, il “Palazzo Coglitore” e il “Palazzo Longo”, andavano sorgendo sulla sponda sinistra del torrente Savoca, in prossimità del “Nero” e del “Bianco”. La costruzione di questi “palazzi”, le loro torrette spesso merlate e le torri di avvistamento assicuravano una certa protezione in quanto erano dei veri e propri rifugi, costruiti a mo’ di roccaforte, dai commercianti della “marina”, ma non potevano dare ospitalità ai pescatori che, pertanto, continuavano ad abitare il loro quartiere di Savoca.
Nel 1674 Messina si solleva contro gli spagnoli, si dà ai francesi e tenta di occupare Scaletta. Non vi riesce per la poderosa difesa del principe Antonio Ruffo. Si dirigono allora, i messinesi, verso il capo S. Alessio. Sulla Marina di Savoca si scontrano con gli spagnoli. La battaglia fu sanguinosa, vide la partecipazione di molti savocesi (Savoca appoggiava Messina) è il successo delle truppe messinesi sicchè anche il capo di S. Alessio con il suo castello cadde nelle loro mani. Ma la vittoria fu di breve durata e gli spagnoli tornarono trionfalmente ad occupare Savoca e la sua “Marina”.
Non si erano ancora calmate le agitazioni prodotte dalla rivolta di Messina e, nel 1713, il trattato di Utrecht dava la Sicilia a Vittorio Amedeo II che non ebbe fortuna sia perché gli spagnoli (rassegnati a perdere l’isola) gli crearono non pochi disordini per diversi anni, sia perché i preti si pronunciarono tutti contro il nuovo re e gli resero la vita difficile. Vittorio Amedeo fu costretto a cedere la Sicilia ottenendone, in cambio, la Sardegna.
La nostra isola però non pervenne agli spagnoli perché era l’Austria che se l’era destinata. La lotta fu quindi inevitabile e si concluse con la battaglia di Francavilla il 20 giugno 1819. La “Marina di Savoca” rimase coinvolta nella lotta e ne soffrì le dirette e le indirette conseguenze a causa della presenza di ben sette reggimenti spagnoli distribuiti sul territorio compreso tra capo S. Alessio e Scaletta. Presenza, questa, che ancora una volta spinse le genti della marina a cercare rifugio sui monti.
A ciò si aggiunsero, nel 1743, la peste bubbonica, che produsse vere e proprie decimazioni, e un violentissimo uragano (attorno al 1763) che distrusse quasi totalmente la “Marina di Savoca” compresa quella parte poi destinata a diventare Furci. Un ruolo determinante nella distruzione l’ebbe il mare che, con i suoi cavalloni, non lasciò in piedi una casupola. La ricostruzione cominciò dopo qualche tempo e un po’ distante dal mare, a monte di una trazzera che conduceva fino a Forza d’Agrò; subito dopo, si estese nel retroterra marino, mentre alcuni marinoti riprendevano coraggio e tornavano verso il mare, anche perché il commercio marittimo diveniva sempre più attivo grazie soprattutto alla sparizione dei pirati.
Così da Savoca, da Taormina, da Mandanici e da Fiumedinisi la gente si spostava ed andava occupando la “Marina di Savoca”, centro di attività produttive agricole e marinare, costituito da tre grosse concentrazioni: la prima attorno alla chiesa di Porto Salvo, la seconda tra il “rio” Porto Salvo e il torrente Savoca che, in ricordo del vecchio casato dei Bucalo, si chiamò appunto “Bucalo” e la terza tra il torrente di Savoca ed il torrente Pagliara che fu chiamata Furci. Si cominciò così a costruire case ai lati della vecchia trazzera, si aprirono botteghe ed opifici, si coltivarono orti, gelseti per i bachi e si diede vita al traffico commerciale e mercantile. Naturalmente -anche in conseguenza di questa vitalità economica- cominciò a serpeggiare il malcontento verso la signoria di Savoca da cui la “Marina” continuava a dipendere e si accusò Savoca di dispotismo e di esosità per le eccessive tasse.
Nel 1820, quando giunse notizia dei moti Carbonari, le popolazioni di questi villaggi colsero l’occasione per ribellarsi: invasero Savoca, saccheggiarono le case dei signorotti e la sede del Comune e diedero alle fiamme documenti e ricordi storici che erano conservati negli archivi. La ribellione non ebbe successo e la reazione savocese portò a dure condanne ai caporioni della rivolta che si estinse presto. I “marinoti” furono così costretti a lavorare e a commerciare ancora sotto il dominio di Savoca.
Nel 1828 venne realizzata la strada rotabile Messina-Catania (attuale strada statale 114) che sostituì l’ormai insufficiente ed inadeguata trazzera. Il commercio e le comunicazioni ricevettero un impulso veramente straordinario, al punto che la “Marina di Savoca” divenne famosa fino a Catania per la ricchezza del suo territorio e la bontà dei suoi prodotti. Porto Salvo e Bucalo si espandevano per le attività agricolo-pastorali mentre Furci acquistava preminenza assoluta nel traffico e nell’industria del tempo, tanto che in questa località, nel 1841, vi si stabilì un ricco negoziante di Messina, Antonio Russo Gatto, che vi aprì grandi magazzini di agrumi e cereali e una fabbrica di essenze di limone. Attività, queste, che a Furci hanno avuto una notevole espansione e sono prospere ancora oggi.
La necessità “sociale” dei viaggi rimaneva però l’autonomia da Savoca malgrado il dominio di questa Baronia si fosse ridotto di molto. Nel 1847 i “marinoti” fecero una supplica al re, ma non ottennero nulla, sicchè, quando Palermo insorse contro i Borboni e, vittoriosa, riuscì a ridare vita all’antico Parlamento siciliano, dalla spiaggia di Savoca partirono in molti per appoggiare le lotte palermitane: alcuni con la squadra di Luciano Crisafulli, altri con quella del colonnello Interdonato; altri ancora stanziavano a Messina agli ordini del generale Pracanica.
Tra tutti, però, si distinse Giuseppe Caminiti (di cui accenniamo tra le “curiosità”), il quale riuscì ad ottenere dal Parlamento siciliano un decreto che erigeva a comune autonomo i villaggi della “Marina di Savoca” ai quali veniva assegnato il nome di “Bucalo”.
Ma fu una soluzione temporanea: i Borboni ripresero la supremazia e il comune di Bucalo ritornò… “Marina di Savoca” subendo la distruzione di quasi tutte le case e il saccheggio di oggetti preziosi e beni alimentari. Era la domenica delle Palme del 1849. Cessata la bufera della ritorsione, i sopravvissuti ripresero a ricostruire la “Marina” e a riprendere le attività che, in breve tempo, divennero ancor più fiorenti di prima, mentre Savoca riprendeva ad infliggere sempre maggiori sanzioni.
Gli stessi Borboni, però, andavano mettendo in atto azioni repressive che, inevitabilmente, alimentavano cospirazioni segrete che i siciliani intensificavano in attesa di tradurle in aperti atti di ribellione. Il popolo siciliano così dimostrava di voler assumere una nuova fisionomia, di voler possedere nuovi ideali, di non volere più essere strumentalizzato o usato dal Borbone di turno e di volere diventare finalmente protagonista della sua storia e artefice della vita politica. Questo anelito di libertà, di autonomia, non sfuggiva certo ai Borboni che ne intuivano interamente le pericolosità e, per ingraziarsi le simpatie di almeno una parte di popolazione (i tempi andavano rapidamente cambiando), decisero di intervenire laddove le esigenze erano più avvertite. Le richieste, avanzate insistentemente e caparbiamente dai “marinoti” attraverso il loro procuratore (quel Giuseppe Caminiti che era riuscito ad ottenere il decreto di autonomia dal Parlamento siciliano), erano sempre di autonomia e rientravano tra le esigenze più sentite, per cui pensarono bene di assegnare, anche per punire Savoca che aveva appoggiato Palermo, ai villaggi della “Marina” una parte del territorio savonese e concedere la tanto attesa sospirata e lottata autonomia comunale.
E finalmente col decreto del 14 luglio 1853, con effetto dal primo gennaio 1854, le borgate della vecchia “Marina di Savoca” venivano erette a Comune autonomo che comprendeva Furci, Bucalo e Porto Salvo. Furci assumeva la sede del Comune, finchè Bucalo -parte centrale delle tre borgate- “non avesse raggiunto tale sviluppo da poter essa provvedere essa alla amministrazione”.
Il decreto tanto sospirato era stato emesso da Ferdinando II di Borbone e i cittadini dei tre villaggi, in segno di gratitudine verso il sovrano, decisero di dimostrare la loro riconoscenza assegnando al novello Comune il nome della moglie di Ferdinando II, Teresa d’Austria. Nacque così -nel rispetto del sentimento religioso e nella speranza di sollecitare la protezione divina- “Santa Teresa” divenuta “di Riva” per distinguerla da un’altra omonima località della Sardegna.
Nel 1860, dopo il segnale dato dalla campana della Gancia a Palermo il 4 aprile e lo sbarco di Garibaldi a Marsala l’11 maggio, la Sicilia si sollevava nel segno della libertà e del riscatto per la sconfitta patita nel 1848. Anche S. Teresa di Riva dava il suo contributo di uomini volontari, molti dei quali non tornarono più.
Con la costituzione del Regno d’Italia, riprese la prosperità di S. Teresa che si trovò agevolata dalla costruzione della ferrovia Messina-Catania-Siracusa che attraversava l’intero territorio posto a monte della strada rotabile. Nel 1867, riuscì a trasferire gli uffici municipali da Furci a Bucalo, nel frattempo divenuto vero centro propulsore della cittadina che andava formando, cittadina che nel 1881 contava 3633 abitanti e nel 1890 ben 5000.
Nel 1930 la stessa Savoca, quella che era stata la Baronia potentissima e che aveva dominato un vastissimo territorio per circa sette secoli, scompare come Comune autonomo e viene aggregato come frazione, al Comune di Santa Teresa di Riva. Questo beffardo avvenimento durerà fino al 1948, quando Savoca riuscirà a riconquistarsi la sua autonomia municipale. Il territorio tra due Comuni è, in parte, ancora non definito perché il quartiere “Cantidati”, sito nella parte più alta di S. Teresa, sulla strada per Savoca, viene ancora oggi rivendicato dalle due amministrazioni comunali. I cittadini però, a grande maggioranza, propendono per Savoca.
NOTA: I testi sono tratti dal libro di Carmelo Duro “LA VALLE D’AGRO”. Seconda edizione (1995). (Riproduzione riservata).
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