Storie di Sicilia
“I DETTI DELL’ANTICO”: LA DONNA, L’AMORE, LA FAMIGLIA, IL LAVORO, IL CIBO
Il savocese Santino Lombardo, autore del libro “I detti dell’antico”, ci ricordava nel 2010 come la Regione Siciliana avesse istituito il R.E.I. (Registro delle Entità Immateriali) con lo scopo di salvaguardare il patrimonio culturale immateriale. Tra le cosiddette eredità immateriali rientrano le tradizioni orali, il linguaggio, i saperi legati all’artigianato tradizionale ed alla vita popolare familiare stessa, che si trasmettono oralmente di generazione in generazione e che, quindi, corrono un notevole rischio di dispersione.
Già in altre occasioni, Fogliodisicilia.it si è soffermato sul tema dei “Detti popolari”. Abbiamo fatto ciò, e così continuiamo a fare, in rispetto delle antiche tradizioni ed anche in rispetto a persone come il ricercatore storico Lombardo, che ne fanno cultura. Anche per questo, non siamo entrati ne entreremo nel merito della legittimità di temi, dei termini usati a suo tempo, delle convinzioni popolari giuste o sbagliate che fossero.
LA DONNA, L’AMORE, L’EROTISMO
Lassàru dìttu l’òmini ddotti. “U diavulu a fimmina non ci pòtti”. (Questo detto, rimarca la convinzione di un tempo, secondo la quale la donna fosse molto più furba dell’uomo).
Non su’ li bbeddi chi si fannu amari, ma su li modi e lì paroli. (Questo detto esalta l’umanità della persona, – modi e parole – esaltandola al di sopra della propria bellezza).
Marititi cchi bbenti: ti levi un pinseri e ti nni menti tanti. (Benti o abbenti = riposo, pace. Questo detto si ricollega al precedente, ma partendo… dalla donna).
Cu pì rrobba na-bbrutta si pigghia: non trova cunfissuri chi l’assolvi. (Chi si sposa una brutta perchè proprietaria terriera (a rrobba = la terra da coltivare), non trova confessore che lo assolva.
Ti ricoddi quann’erumu zziti/ chi manciaumu zzuccarati! Ora chi sèmu maritati:/ cauci, pugnia e tumulati. (Esiste anche la variante: “Chi manciaumu favi spicchiati”. Questo detto distingue i due momenti, il fidanzamento ed il matrimonio: un primo periodo di dolcezze, seguito nello specifico… da una dura realtà familiare.).
A soggira cà nòra: a iatta cà cagnòla. (La suocera con la nuora: la gatta con la cagna. Un modo come un altro per dire che: non sempre le cose… vanno bene fra le due donne.).
U cumannari è megghiu dù futtiri. (Secondo questo antico detto, l’atto del comando, inteso come alto potere, sarebbe più gratificante… dell’atto sessuale.).
Quantu tira un-ppilu i stìcchiu,/ non tirunu ccentu-paricchi i bboi.
IL LAVORO E IL CIBO
Mai cose sono state così connaturate fra loro come il lavoro ed il cibo. L’ossessiva ricerca del cibo per sfamarsi era l’aspirazione principale dei nostri padri, ma non sempre si riusciva a soddisfare i bisogni primari, specie in periodi di carestia e di cattivi raccolti quando la fame “si tagliava con il coltello”.
“A chi ti dava pane lo dovevi chiamare padre” rimarca un noto proverbio. La carne, un tempo, era un lusso e si mangiava di Natale, quando chi se lo poteva permettere ammazzava “u porcu” (il maiale), allevato in casa, di Pasqua e nelle feste ricordate. Magra era l’alimentazione. Una pietanza ricercata era il pescestocco, detto un tempo, per il basso costo il “cibo dei poveri”. Assai usati erano i legumi, le uova e la minestra selvatica.
Il costo della mano d’opera era basso e lo sfruttamento generalizzato. Si lavorava dall’alba al tramonto o da “suli a suli” secondo la consuetudine triste dei tempi, sopravvissuta fino al 1965 circa. Ci si fermava a mezzogiorno per mangiare (spesso era il padrone a portare il cibo). Gli arnesi di lavoro erano gli stessi di quelli adoperati nel medioevo (zappe ad una lama, il piccone, il forcone) e, utilizzandoli, l’uomo ingobbiva sulla terra. In tale povera situazione ci si ammalava per denutrizione; invece, oggi, ci si ammala per il troppo e mal mangiare. In questo stridente contrasto sta, dal punto di vista alimentare, la differenza sostanziale fra i tempi passati e i nostri giorni. Afferma Lombardo.
Ci dissi a vurpi ò cunigghiu: non s’arricchisci no cu lu ttravagghiu. (Disse la volpe al coniglio, non ci si arricchisce con il lavoro. espressione rivolta dall’uomo furbo allo stupido per significare che con il lavoro onesto non si è mai arricchito nessuno.).
U travagghiu dù sparagnuni sù mancia ù sciampagnuni. (Il lavoro di chi risparmia eccessivamente, lo divorerà, un giorno, lo scialacquatore.).
Mi veni giugnu e mi veni di notti e li ttravagghi mi li trovu fatti: annunca li fa iddu ntà ddu-notti. (All’inizio di giugno, quando sopraggiunge il solleone, tutti i lavori agricoli devono essere terminati.).
Farisilla à fàula à ùgghia. (Fare a scarica barile. Letteralmente: Farsela alla favola dell’ago. Una variante è la seguente: “Farisìlla à scarrica canali”).
Tu chi non fili, non tessi e non ncanni, d’unni ti vèni stu gghiommuru ranni? (Tu che non fili, non tessi e non incanni, da dove ti viene tutta questa ricchezza? Una variante è la seguente: Tu chi non ncanni, non fili e no tessi, annunca stu gghiommuru d’unni ti nesci? Ghiommuru = matassa che, generalmente, era raccolta sull’arcolaio.).
U nòmu ti canciàru, traditura, di zzappa ti mintèru, matacòna. (Si racconta questa storia diffusa in varie zone della Sicilia. Un giovane per sfuggire alla dura legge dello zappare pensò di farsi monaco. Cominciò a fare il noviziato ma, dopo pochi giorni di buon trattamento, il priore lo fece accompagnare nel magazzino del convento: gli fu mostrata la matacòna con cui doveva lavorare l’orto. È la matacòna il nome arcaico della zappa. Grande fu lo sconforto del giovane che fuggì dal convento per andare a domandare l’elemosina sentenziando l’espressione in argomento.
U manciàri dù viddanu: minestra-bbugghiuta e favi-rrappari. (Ciò da il senso della povertà di quella gente).
Prùna, màncini una: ggirasi, quantu nni ntrasi. (Prugna, mangiane una, ciliegie quanto ne entrano nello stomaco. Quanti ne vuoi.).
Mugghi nniuru pani cà nniura fami. (Meglio pane nero che fame nera. A quel tempo era in uso il pane di frumento il cui colore era scuro.).
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