Storie di Sicilia
FIUMEDINISI. FRA ANTICHE TRADIZIONI, USI E COSTUMI POPOLARI
FIUMEDINISI – E’ notorio che il distretto di Fiumedinisi fu frequentato sin dall’antichità da qualsiasi dominazione straniera succedutasi in Sicilia, particolarmente interessata alla sue ricchezze minerarie e ambientali. La presenza umana è accertata già nel neolitico ed in età classica, e con la dominazione greca viene fondato un piccolo villaggio, cui fu posto il nome di Nisa, dedicato al dio Dionisio, da cui discende e deriva l’attuale territorio dell’intera Valle del Nisi e particolarmente dell’antico borgo medioevale di Fiumedinisi, ancor prima denominato Flumen Dionisyi cioè Fiume di Dionisio.
Per molti secoli, questo villaggio sopraintendeva al territorio litoraneo che oggi interessa i comuni di Nizza di Sicilia e Roccalumera, dove vi erano avamposti e torri di avvistamento e poche case di pescatori. Soltanto nel XVII secolo Roccalumera ebbe la sua autonomia con il matrimonio della baronessa Isabella Lanza, vedova di don Antonio Romano Colonna, con il principe Giovanni La Rocca, che permise di unificare alcuni territori limitrofi del territorio di Fiumedinisi e della borgata di Allume. Soltanto nel 1849 Nizza di Sicilia ottenne la sua autonomia comunale, essendo stata per secoli la cosiddetta “Marina di Fiumedinisi”, con il nome di San Ferdinando, mutando poi nel 1863 in Nizza di Sicilia.
LA PASTORIZIA – Nei vastissimi pascoli del bosco si allevavano pecore, capre, bovini e maiali, che consentivano di trarre dagli stessi animali, oltre alla carne, le pelli, la lana, il latte, la ricotta, i formaggi, i salumi, e altri alimenti utili come condimenti della cucina locale. Venivano utilizzati per queste attività attrezzi e utensili domestici in legno, prodotti artigianalmente dagli stessi pastori, come i collari con campanacci per gli animali e le stoviglie in legno di vario genere (attrezzi come le fascedde per la tuma, le cavagne per la ricotta, realizzate con bacchette di canna e gli utensili da cucina in legno), oltre a tipiche ceste (panari) in verga di diverse dimensioni e per ogni uso. Un prodotto tipico e molto apprezzato era ed è ancora il formaggio pecorino fatto con il latte di pecora, che è pure un ingrediente fondamentale per alcune preparazioni culinarie tipiche dell’isola. I pastori, durante le puse di migrazione del gregge, realizzavano i flauti di canna, i tammureddi e le ciaramedde che usavano per passare il tempo durante il pascolo e nel periodo natalizio per rendere omaggio ai presepi.
USI E COSTUMI DELLE FAMIGLIE – La pianificazione del bucato, per le esigenze della famiglia, avvenivano settimanalmente. Ogni abitazione era provvista di forno a legna e quì, col grano prodotto nei fondi agricoli, si realizzava il buonissimo pane di uso quotidiano, i biscotti e le schiacciate. Prima di mettere la pasta in forno ci si faceva il segno della croce, perchè il pane veniva considerato grazia (ràzia) di Dio; appena pronto, veniva sfornato caldo e adagiato nello zuricu, cesta in verga con il coperchio, esclusiva per contenere il pane. Con il grano veniva pure fatta la pasta per i tipici maccheroni realizzati a mano e arrotolati con lo spiedino. Erano cucinati sull’immancabile cufularu e conditi col sugo dell’agnello, e venivano molto apprezzati dagli indigeni e da quanti avevano modo di gustarli. Il bucato si lavava sulla riva del fiume con il sapone prodotto in casa con la cenere e con l’olio vecchio (murga) e a volte con altri intrugli.
Il bucato prodotto con il semplice uso di sostanze naturali veniva bianchissimo e profumatissimo. Era uno spettacolo vedere le tante donne intente a strofinare i panni sulle lisce pietre della riva del fiume, che per dimenticare la fatica intonavano in coro canti tradizionali. Le abitazioni erano prive di acqua corrente e quella potabile, per uso casalingo, si raccoglieva nelle tante fontane sparse nel centro abitato e nelle contrade. Bisognava però fare la fila e poi portare a casa il prezioso liquido nei contenitori di latta o di terracotta (bummuli), spesso a spalla o perfino sulla testa.
LE FORNACI PER LA CALCE – Nelle cosidette carcàre, sparse in tutto il territorio rurale, si produceva la calce, realizzata dalla frantumazione della pietra calcarea impastata a vari rami di paglia cotti nella fornace, che era utile alla costruzione o ristrutturazione delle case. Nelle stesse fornaci venivano pure prodotte artigianalmente le tegole (i ciaramiti) e i mattoni, con l’argilla e la paglia (tecnica imparata dagli antichi romani), utili alle tipiche costruzioni locali e perfino le grossolane mattonelle per la pavimentazione.
L’ARTIGIANATO LOCALE
Tipica espressione di Arte popolare, esprimeva una forma culturale collettiva. Nell’artigianato di un tempo, la necessità si fondeva con una forma di fantasia quotidiana, il tutto si tramandava di padre in figlio in una sorta di “cultura della manualità”. Fra i vari lavori, possiamo mensionare:
Il FALEGNAME (ù falignami), che con umili mezzi produceva artigianalmente tavoli, finestre, botti per il vino, manici per gli attrezzi agricoli e perfino giochi per bambini come i palòggi (piccole trottole).
Il FABBRO (ù fuggiaru o firrarù), il suo lavoro spesso fungeva anche da maniscalco. Nella sua fucina annerita di fumo della forfia, produceva artistiche balconate, ma anche utensili per l’agricoltura e perfino modesti ferri di cavallo che provvedeva a calzare egli stesso agli animali.
Il BARBIERE (ù babbèri), oltre alla sua attività di cura personale (di uomo e donna), la sua opera veniva richiesta saltuariamente pure come cerusico e cavadenti. iltre a pennello da barba, forbici e pettini, teneva pronti all’uso anche tenaglie per cavare denti e bisturi per fare salassi.
Il CALZOLAIO o CIABATTINO (ù scarparu), era un modesto artigiano che lavorava sulla sua piccola banchitta provvista di varie forme di scarpe e di diverse misure. Si usava risuolare le scarpe, o aggiungere i cosiddetti tacci, (taccetti in metallo), per impedire che le suole si consumassero velocemente. All’epoca, i più facevano rattoppavare le scarpe, i nobili se le facevano realizzare a loro gusto e su misura.
Lo STAGNINO (stagnataru), era un modesto operaio che realizzava e spesso ideava contenitori in latta, utili alla vita quotidiana, domestica e lavorativa. Fra di essi, ricordiamo: i quattàri i lànna (recipienti per contenere liquidi), i bagnalori (piccole vasche da bagno), i rattalòri (grattugge), ma anche à stagnàta (contenitore casalingo per portare l’olio a tavola.
La RICAMATRICE (o sartina), era il mestiere tipico della donna, sia anziana che giovane, si eseguiva dentro le mura domestiche o nei laboratori artigianali. Essa, ricamava “a tombolo” ed era brava nel “punto in croce” e nel realizzare gli orli. Poichè, molta importanza rivestiva realizzare la dote alla figlia femmina, oltre a biancheria, si realizzavano dei ricami per impreziosire l’abbigliamento o le federe. La paola raqm deriva dall’arabo e significa segno disegno. Nei secoli scorsi sono stati eseguiti lavori di ricamo con seta e fili d’oro per chiese locali, con particolare riferimento a paramenti sacri e tovaglie d’altare.
N.B. I testi sono tratti dal libro di Carlo Gregorio “Antichi mestieri e tradizioni popolari della Valle del Nisi”, pubblicato nell’Agosto 2005.
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