Storie di Sicilia
L’emigrazione italiana verso la fine dell’800 (Racconto)
La dolorosa conferma delle impossibili condizioni di vita di tanta parte della popolazione italiana e della ingiustizia politica dei dirigenti di allora è data da quel grande fenomeno sociale della emigrazione per il quale ogni anno abbandonavano la patria alla volta della lontana America migliaia e migliaia di lavoratori. Il brano che segue ci dice con quale animo e in quali condizioni essi si decidessero a questo passo da disperati, per un viaggio che per i più sarebbe stato senza ritorno e che per tutti era un’avventura verso una mèta ignota, dove non avrebbero trovato nessuno ad attenderli e ad aiutarli, dove andavano senza nemmeno conoscere qualche parola della lingua del nuovo Paese, alla cieca, con le poche cose che portavano con sé.
Quando arrivai, verso sera, l’imbarco degli emigranti era già cominciato da un’ora, e il Galileo, congiunto alla calata di un piccolo ponte mobile, continuava ad insaccar miseria: una processione interminabile di gente che usciva a gruppi dall’edificio dirimpetto, dove un delegato della questura esaminava i passaporti.
La maggior parte, avendo passato una o due notti all’aria aperta, accucciati come cani per le strade di Genova, erano stanchi e pieni di sonno. Operai, contadini, con bambini al petto, ragazzetti che avevano ancora attaccata la piastrina di latta dell’asilo infantile, passavano, portando quasi tutti una seggiola pieghevole sotto il braccio, sacche e valige d’ogni forma alla mano o sul capo, bracciate di materasse e di coperte, e il biglietto col numero della cuccetta stretto fra le labbra. Delle povere donne che avevano un bambino in ciascuna mano, reggevano i loro grossi fagotti coi denti; delle vecchie contadine in zoccoli, alzavano la gonnella per non inciampare nelle traversine del ponte, mostravano le gambe nude e stecchite. Molti erano scalzi, e portavan le scarpe appese al collo.
Finalmente si udiron gridare i marinai a poppa e a prua e ad un tempo: – Chi non è passeggero a terra!
Queste parole fecero correre un fremito da un capo all’altro della Galileo; in pochi minuti tutti gli estranei discesero, il ponte fu levato, le gomene tolte, l scala alzata: s’udì un fischio, e il piroscafo si incominciò a muovere. Allora le donne scoppiarono in pianto, dei giovani che ridevano si fecero seri, e si vide qualche uomo barbuto, fino allora impassibile, passarsi una mano sugli occhi. Il piroscafo scivolava pian piano nella mezza oscurità del porto, quasi furtivamente, come se portasse via un carico di carne umana rubata.
Pochi parlavano a bassa voce. Vicino al castello di prua una voce rauca e solitaria gridò in tono di sarcasmo: – Viva l’Italia! – e alzando gli occhi, vidi un vecchio che mostrava il pugno alla patria. La maggior parte era gente costretta a emigrare dalla fame, dopo essersi dibattuta inutilmente, per anni, sotto l’artiglio della miseria. Vi erano lavoratori avventizi del Vercellese che con moglie figliuoli, ammazzandosi a lavorare, non a guadagnare cinquecento lire l’anno, quando pure trovan lavoro; contadini del Mantovano che, nei mesi freddi, passano sull’altra riva del Po a raccogliere tuberose nere, con le quali, bollite nell’acqua, non si sostentano, ma riescono a non morire durante l’inverno; e mondatori di riso della bassa Lombardia che per una lira al giorno sudano ore e ore, sferzati dal sole, con la febbre nelle ossa, sull’acqua melmosa che li avvelena, per campare di polenta, di pan muffito e di lardo rancido.
C’erano molti calabresi che vivon d’un pane di lenticchie selvatiche, somigliante a un pasto di segatura di legna e di mota, e che nelle cattive annate mangiano le erbacce dei campi, cotte senza sale, o divorano le cime crude delle sulle, come il bestiame, e bifolchi della Basilicata, che fanno cinque o sei miglia ogni giorno per recarsi sul luogo del lavoro, portando gli strumenti sul dorso, e dormono con il maiale e con l’asino sulla terra nuda, in orribili stamberghe senza camino, rischiarate da pezzi di legno resinoso, non assaggiando un pezzo di carne in tutto l’anno se non quando muore per un accidente uno dei loro animali. E c’eran pure molti di quei poveri mangiatori di panrozzo e di acquasale (1) delle Puglie, i quali con una metà del loro pane e centocinquanta lire l’anno debbono mantenere la famiglia in città, lontana da loro, e nella campagna dove si stroncano, dormono sopra sacchi di paglia entro a nicchie scavate nei muri di una cameraccia, in cui stilla la pioggia e soffia il vento.
Edmono De Adamicis: Sull’oceano, Treves, Torino.
1) Panrozzo: Un pane nero del peso di un chilo; Acqua-sale: Acqua bollita con pochissimo sale e qualche goccia d’olio, che il massaro, a mò di zuppa, versava nelle scodelle di legno dei contadini posti in fila.
C’ERA UNA VOLTA IN AMERICA. Colonna sonora (Ennio Morricone)
“… la mia sola risposta era si, sissignore Padrone Eccellenza! …”
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