Storie di Sicilia
ALIANELLO RACCONTA COME E’ STATO CONQUISTATO IL SUD
Quando leggo libri sul nostro Risorgimento e soprattutto come è stata fatta centocinquant’anni fa l’unità dell’Italia, mi sorge un dubbio, per caso le attuali condizioni di dittatura della burocrazia, del saccheggio della cosa pubblica, dell’essere nelle mani di una oligarchia incolta, becera e voracissima, dell’essere vessati e tassati, in pratica lo “Stato Canaglia”, ben descritto da Piero Ostellino, sia la conseguenza, per la maggior parte, di quella specie di unità forzata e imposta con le armi agli italiani.
Un libro che ha descritto bene come venne conquistato il nostro Meridione è quello di Carlo Alianello, La Conquista del Sud, ho letto l’edizione pubblicata da Rusconi nel 1972, tra l’altro, è uno dei miei primi libri non scolastici che ho letto. Allora, sono rimasto subito conquistato dall’argomento. Vale la pena presentarlo, mi affido alla riedizione riveduta del 2010 dalla casa editrice Il Cerchio.
Alianello è stato uno dei primi a narrare la vera storia del nostro Risorgimento, che per il Sud ha significato, una vera e propria conquista militare, peggiorando le condizioni sociali ed economiche e compromettendo fortemente ogni possibile suo sviluppo. Per decenni questa storia è rimasta semiclandestina perché poco rispettosa delle “patrie memorie”. Soltanto negli anni 90, è iniziata una vera e propria revisione storica ad opera di alcuni studiosi e storici nati negli ambienti tradizionalisti. Gli studi di Alianello assumono grande significato perché lui nonostante quello che scrive non è un nostalgico del legittimismo borbonico, al contrario dei militanti scrittori marxisti, liberali, azionisti a lui contemporanei, che spesso piegavano la verità alle superiori esigenze del Progresso, del Popolo, dell’Idea.
Pertanto, “Alianello – notò Fausto Gianfranceschi – non ha mai voluto identificarsi con il legittimismo borbonico. In lui prevalgono soltanto il risentimento morale per l’oblio di virtù e di momenti eroici, che pure furono vissuti da italiani(…)”. Tuttavia “La Conquista del Sud, – per Adolfo Morganti – non ha potuto evitare la liturgia laica dell’inquisizione, del processo e della scomunica da parte di esponenti della gioiosa macchina da guerra della cultura ‘progressista’”.
Il testo di Alianello non segue una cronologia degli avvenimenti, ce n’è una alla fine del saggio. Opera, con ottima e ricca prosa, per quadri ben distinti; ogni capitolo fornisce precise e lunghe citazioni, memorie di chi ha vissuto quegli anni, dando spazio non solo ai filo borbonici, ma anche a chi stava dall’altra parte. Inizia il suo studio raccontando come è nata la leggenda nera sul Regno delle due Sicilie. I protagonisti furono due eminenti e illustri politici inglesi, Gladstone e Palmerston che senza aver visitato le galere napoletane, scrivevano che il Regno borbonico, “rappresenta l’incessante, deliberata violazione di ogni diritto(…)la negazione di Dio; la sovversione d’ogni idea morale e sociale eretta a sistema di governo”. Iniziava così quell’opera, non tanto sotterranea, di congiura da parte dell’Inghilterra contro il Regno di Napoli e Ferdinando II, rappresentato come un orco. A questo proposito scrive il Petruccelli della Gattina, patriota, cospiratore ed esule: “Quando noi agitavamo l’Europa e la incitavamo contro i Borboni di Napoli, avevamo bisogno di personificare la negazione di questa orrida dinastia, avevamo bisogno di presentare ogni mattina ai credenti leggitori d’una Europa libera una vittima vivente, palpitante, visibile, che quell’orco di Ferdinando divorava a ogni pasto”. Alianello racconta dei furbi e dei traditori del Regno, come il generale Lanza, Marra, “che non si seppero neppure vendersi a giusto prezzo”, ma anche di quei valorosi soldati rimasti fedeli al Re di Napoli e che difesero l’onore a Gaeta.
Il libro dedica tre capitoli. E qui che si conclude l’ultimo atto di una guerra nascosta contro l’ultimo sovrano napoletano, a Gaeta, i napoletani combatterono con decisione eroica e caparbia, ma anche con sberleffi e con mascherate, perché sono stati capaci di festeggiare anche il Carnevale, Alianello cita il Buttà. “Affamati, laceri, mietuti ogni giorno dal tifo petecchiale che falciava inesorabile i migliori, penetrando persino nell’antro della casamatta dove si erano ridotti a vivere i sovrani, ammucchiati in ospedali traboccanti di feriti e di agonizzanti, puntualmente bombardati ogni giorno (nonostante le ipocrite offerte del Cialdini)…”Questi erano i soldati di Franceschiello, come poi li chiamò la cavalleresca stampa liberale, quei cafoncelli che non conoscevano che cosa fossero sinistra e destra, quelli che marciavano al passo: “co’ lu pilo e senza lu pilo…” Sono quelli che poi i piemontesi schernivano, chiamandoli lavativi, perché provenivano dal paese della lava. Ma secondo Alianello, “questi lavativi fecero fin troppo bene il loro ufficio e lavarono molte macchie di sangue e di sputi”. Combatterono bene almeno dal Volturno in poi, con coraggio, con frenesia, la stessa cosa non si può dire dell’esercito avversario, cioè dei piemontesi. Infatti il generale Cialdini che sedeva comodo al sicuro prese la piazza di Gaeta per fame e non si sognò mai di tentare un assalto, una scalata, un attacco di forza contro gli assediati borbonici. Il Cialdini, piuttosto, si distinse più avanti nelle sue “eroiche imprese” contro innocenti e disarmati, i cosiddetti briganti. Gaeta “fu pugnalata mentre moriva. C’è qualche precedente di questo misfatto nella storia d’Italia, in secoli bui e su un uomo solo”si chiede Alianello, “l’assassinio di Gaeta già morta è rimasto finora ignorato o irriso”. Il libro cerca di fare chiarezza senza voler apparire per forza nostalgico o legittimista, “al giorno d’oggi sarebbe perlomeno ridicolo: i Borboni, come i Savoia, non ci interessano; al massimo ci piacerà talvolta confrontare la fine degli uni e degli altri alla luce della nobiltà degli atti di valore”.
Scomparso il Regno di Napoli arriva la liberazione dei vincitori, “L’Italia combatte l’Italia”, “L’Italia subissa l’Italia”, così, “dopo tanti sterminati vanti del nostro primato civile, ora diamo spettacolo d’avidità da pirati, di barbarie esecrande, di cinismo e d’ateismo vestiti di stucchevoli ipocrisie”. Stiamo parlando dei dieci anni di guerra del Nord contro il cosiddetto brigantaggio nel Sud, se la raccontiamo, non una, due volte, anche mille è perché ancora quando “celebrato il centenario dell’Italia unita, gli italiani rifiutano di essere tali”. Alianello lo scriveva cinquant’anni fa, noi lo possiamo scrivere ancora oggi. “Siamo reazionari? Legittimisti? Vecchi? Decrepiti? No: soltanto amici della verità”.
Rozzano MI, 17 gennaio 2014 S. Antonio abate
DOMENICO BONVEGNA
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VITTORIO SARTARELLI
L’UNITA’ D’ITALIA E “LA QUESTIONE MERIDIONALE”
VERITA’ STORICHE SOTTACIUTE E IPOCRISIE POLITICHE
Il 17 Marzo del 2011 l’Italia ha festeggiato i centocinquanta anni della sua unità. Certo, dal 1861 quando questa entità politica si autodeterminò, molta acqua è passata sotto i ponti e, da allora, come ebbe a dire un importante scrittore dell’epoca “Abbiamo fatto l’Italia, ora dobbiamo fare gli Italiani”. Per certi versi, nell’odierna realtà ancora esistono scompensi sociali e quindi politici tra gl’italiani del Nord e quelli del Sud, i primi di Serie A i secondi di Serie B. Tra il Nord e il Sud d’Italia c’è stata sempre diversificazione e differenziazione dal punto di vista sociale, economico, produttivo e reddituale.
Mentre il Sud tende ad una vera autonomia da sempre vagheggiata e mai raggiunta, il Nord, nella circostanza la Padania, tende alla secessione e, purtroppo, dobbiamo ammettere che esiste il rischio di disintegrare lo Stivale, altro che unità. Se alle profonde dissonanze sociali economiche e territoriali si aggiungono l’eccessiva litigiosità politica che si concretizza in un immobilismo che non permette l’attuazione di riforme e l’aggiustamento di determinati parametri dell’organizzazione sociale del paese, se si aggiunge ancora, purtroppo, il malcostume, la disonestà e la deviazione morale di alcuni uomini delle Istituzioni, il quadro non è certo semplice né edificante.
Né, d’altra parte, per quanto riguarda la repressione e la dissuasione a delinquere esistono sempre leggi adeguate e giustizia equa, c’è bisogno di nuove leggi e di un apparato giudiziario ben preparato e gestito in modo che la giustizia abbia il suo corso importante e decisivo nel più breve tempo possibile e nel modo più adeguato e commisurato ai crimini giudicati.
In questo, tipico periodo storico, di depressione connessa alla situazione di grave crisi economica e finanziaria che attanaglia l’Europa, la disoccupazione e il calo della produzione industriale determina nel paese uno stato di confusione e di scarsa fiducia nel futuro e crea ulteriori tensioni sociali tra i ceti meno abbienti e i così detti ricchi o benestanti.
La storia insegna che essa si ripete nei destini dei popoli e queste tensioni e questi problemi economici, sociali e di criminalità cui si assiste oggi sempre più spesso, sono quasi gli stessi problemi che, 150 anni fa, attraversavano trasversalmente quasi tutta la nostra penisola. Il Nord sempre più progredito e capace di governare ed organizzarsi socialmente ed economicamente ed il Sud, sempre più arretrato e depresso, governato da i grossi proprietari terrieri, dove il popolo viveva in modo gramo, ignorante e nullatenente, coltivando i campi dei latifondi in una economia di tipo rurale e contadina, sfruttato dai padroni.
La storia, quella recente, come quella Italiana non sempre è stata obiettiva, perché gli storici dell’epoca hanno insegnato e descritto, storiograficamente, quello che il loro orientamento politico, religioso e filosofico li portava ad esprimere o perché spinti dai poteri forti dominanti a raccontare la storia il suo percorso e i suoi scopi secondo l’orientamento determinante di chi comandava all’epoca.
E’ assodato che l’unità d’Italia si deve a Casa Savoia che fu sicuramente il file rouge del processo d’unificazione, non per un motivo ecumenico e sociale avente per scopo il miglioramento delle condizioni di vita di tutti gli Italiani ma, per una mira espansionistica del Regno di Sardegna che sarebbe diventato, con le varie annessioni e con l’unificazione, il Regno d’Italia. Il Principe Emanuele Filiberto ha dichiarato di recente: “Torino è per Casa Savoia il luogo della memoria, amato e rispettato, non solo l’antica Capitale del Regno di Sardegna e la prima “Capitale d’Italia” dimenticando che dopo la spedizione del mille in Sicilia, anche se per un giorno, la prima capitale d’Italia fu dichiarata da Giuseppe Garibaldi la città di Salemi in provincia di Trapani.
Anche in questa circostanza la verità della Storia è stata distorta, perché allora Garibaldi essendosi autodichiarato Dittatore e plenipotenziario di Vittorio Emanuele II promise ai contadini siciliani di assegnare loro le terre che erano in mano ai signorotti dell’Isola, ma non mantenne poi la promessa.
I contadini siciliani attendevano dal ricongiungimento della Sicilia alla penisola italica la soluzione dei problemi della terra ma, essi furono rapidamente delusi. La classe dirigente costituita per la maggior parte dai maggiori abbienti, dai ricchi proprietari terrieri e da una schiera di nobili, come Principi Baroni e Marchesi, ottenne ciò che sperava dal mutamento politico del 1860. Fu decisa la vendita degli antichi feudi e poi quella delle terre delle congregazioni religiose soppresse. I latifondi, quindi, furono divisi in appezzamenti di terra e ceduti a contadini troppo poveri per acquistare sementi e materiale agricolo per le coltivazioni. Dopo pochi anni, i Baroni e i borghesi li recuperarono a bassissimo prezzo. Le cause del malcontento tra il popolo si moltiplicavano, iniziò allora il fenomeno del Brigantaggio che ebbe il suo primo esordio con l’applicazione nell’Isola della legge piemontese sulla coscrizione. Questa ulteriore imposizione oltre all’aumento delle tasse, determinò la prima ribellione e il governo Piemontese applicò la legge marziale poiché i disertori erano più di 25.000, la cosiddetta Legge Pica e la repressione avvenne mediante l’impiego di 120.000 uomini al comando del mercenario Giuseppe Garibaldi. Questa fu la prima macchia che coprì la fama dell’eroe dei due mondi, vennero condannati 2.800 eroici siciliani e la repressione aveva fatto già 2.500 morti; in questa che fu una vera e propria guerra civile naturalmente s’infiltrarono anche i veri briganti e i delinquenti dell’Isola.
Tornando alla spedizione dei Mille, che viene definita da tutti ormai la pietra miliare dell’unità d’Italia, è giusto che si sappia che le vittorie di Garibaldi in Sicilia furono, per la maggior parte, una montatura scenografica degli scrittori dell’epoca, molti di essi, infatti, facevano parte della spedizione.
I prodromi storici della spedizione dei mille si ebbero già nel 1848, quando nacque la Repubblica Siciliana, l’Isola ritorna ad essere indipendente con Ruggero Settimo che sventola l’antica bandiera siciliana. Gli inglesi avevano numerosi interessi commerciali ed imprenditoriali in Sicilia, come la produzione del vino Marsala da parte della famiglia Whitaker o lo sfruttamento delle solfatare per l’estrazione dello zolfo e consigliano il Piemonte e quindi Vittorio Emanuele II ad annettersi l’Isola. I Savoia, quindi, preparano una spedizione da affidare a Garibaldi.
Cavour in un primo momento si oppose perché considerava quest’ultimo un fuorilegge e un avventuriero senza scrupoli, a questo proposito va notato che alcuni biografi lo descrivono come un ladro di cavalli che, quando si trovava nell’America del Sud, venne arrestato e gli venne tagliato l’orecchio destro, motivo per il quale sarà, suo malgrado, capellone a vita per nascondere la mutilazione. Il nome di Garibaldi venne abbinato, altresì al traffico di schiavi dall’Africa all’America. Evidentemente, nonostante l’aureola di grande condottiero e grande uomo, non era certo uno stinco di santo.
Che questa spedizione fosse una specie di paravento storico alla futura unificazione dell’Italia è avvalorato dal fatto che Garibaldi fu rifornito di denaro dagli inglesi e dai Savoia e per la compagine di combattenti della quale era infarcita la spedizione è interessante la nota dello stesso Garibaldi sull’arruolamento:”Francesco Crispi arruola chiunque: ladri, assassini e criminali di ogni sorta” altro fatto piuttosto singolare era costituito dall’armamento con il quale erano equipaggiati la maggior parte di questi mille uomini, alcuni fucili vecchi e mal funzionanti e senza munizioni.
Nel mese di Maggio del 1860, Garibaldi con la sua ciurma parte dallo scoglio di Quarto presso Genova, con due navi piuttosto malandate, tuttavia, prima di giungere a Marsala fa scalo in un porto lungo la penisola e viene rifornito di armi e munizioni dall’esercito piemontese. Giunto a destinazione, con la protezione delle navi inglesi “Intrepid” e “H.M.S. Argus” l’11 Maggio sbarca a Marsala senza colpo ferire per la mancanza di truppe ostili.
Altra montatura storica è il rilievo dato alla famosa Battaglia di Calatafimi, dove all’inizio Garibaldi avrebbe detto a Nino Bixio, altro personaggio bieco e spregiudicato, che per paura non voleva quasi iniziare a combattere: “Nino qui si fa l’Italia o si muore!” altra frase roboante e propagandistica riportata dagli storici al seguito della spedizione. In effetti la grande battaglia, fu invece una modesta scaramuccia, si contarono 127 morti e 111 feriti.
I Borboni con minor perdite disertarono il campo e si seppe anche che il Generale borbonico Landi fu corrotto e comprato dagli inglesi, tanto è vero che con un esercito di 25.000 uomini e notevole artiglieria, i Borboni inviarono contro Garibaldi soltanto 2.500 uomini e l’esercito ricevette l’ordine di non combattere.
Altro episodio deprecabile e nefando, a lungo taciuto nei testi ufficiali, per non oscurare la fama di Garibaldi, fu il massacro di Bronte un paesino medievale ai piedi dell’Etna. Il fatto in se stesso è significativo sotto molti aspetti ed indica il fortunato equivoco su cui si basa il trionfo della spedizione garibaldina in Sicilia e, in fondo, la realizzazione stessa dell’unità d’Italia. Il 10 Agosto 1860 da un bordello di Corleone, Nino Bixio ordina il massacro di Bronte, ivi si scontrarono le masse contadine ed un gruppo di garibaldini guidati da Bixio: da un lato, quindi, le stesse forze con le quali si era ingrossato il numero dei Mille e dall’altro un personaggio discusso e discutibile che rappresentava, in questo caso non la rivoluzione ma l’ordine, non gli interessi dei contadini affamati di terra, ma quello dei proprietari scacciati e spesso linciati dalla folla inferocita.
Processi sommari e fucilazioni in piazza furono il risultato dell’azione repressiva di Bixio, nella circostanza, era consapevole Garibaldi che stava ingannando quelle folle alle quali, come eroe della cacciata dei Borboni, aveva promesso le terre? Era già convinto che le necessità politiche e militari e gli ordini delle autorità piemontesi lo avrebbero costretto alla repressione? Forse si, ma la “paga” e la “ragion di Stato” erano prevalenti.
La “Questione meridionale” esistente già prima dell’unificazione, purtroppo, esiste ancora e va considerata come una priorità da affrontare e risolvere per il bene e l’interesse del Paese. “Affrontare la questione meridionale nei termini attuali – ha detto tempo fa il Capo dello Stato – non è solo il maggiore dei doveri della collettività nazionale, per fare della trasformazione e dello sviluppo del Mezzogiorno una delle missioni fondamentali della Stato unitario.”
In conclusione, a 150 anni dall’unità d’Italia, questo processo di unificazione dello stato italiano è ancora incompiuto, oggi al Sud si può constatare che il vecchio latifondo e praticamente scomparso, che la produzione agricola ha registrato incrementi, che l’industrializzazione si è intensificata, ma gli squilibri tra Nord e Sud sopravvivono con sentimenti acuti di frustrazione e scontento.: Nord e Sud non possono che crescere insieme, non c’è alternativa nel crescere insieme, unità e sistema delle autonomie delle varie regioni non possono essere viste in contrapposizione ma, come piena realizzazione del disegno pluralistico della democrazia che trovò applicazione nella Costituzione Repubblicana. Le caratteristiche dell’italianità nascono dalla pluralità di territori che caratterizzano l’identità nazionale. Questa pluralità è un patrimonio unico in Europa e nel mondo e se non scade nel localismo è arricchimento, che fa dell’italianità un patrimonio inestimabile.
La questione, tuttavia, purtroppo resta aperta i poteri locali, a volte, continuano ad essere condizionati o addirittura complici dei gruppi mafiosi e malavitosi, come la cronaca di ogni giorno ci fa constatare, certo, è un lavoro arduo e sempre più complesso, ma un imperativo morale ci impone di partecipare tutti quanti e di sacrificarci perché un benessere stabile e una Società più onesta, nell’interesse comune, diano uguale dignità a tutti gli italiani.
Vittorio Sartarelli
giovanni
Da GARIBALDI AL BANDITO GIULIANO AL… PRESENTE: UN SUD BISTRATTATO E TUTTAVIA SEMPRE SPERANZOSO
Vittorio, innanzitutto grazie per il tuo colto ed esaustivo commento. Inutile dirti che esso arrcchisce non soltanto la mia personale conoscenza storica di siciliano, ma altresì la mia consapevolezza del “falso storico” che i libri di scuola ci insegnarono riguardo al mito di Garibaldi e dell’unità d’Italia.
Mie conoscenze, (e qualche articolo che pubblicai anni fa), possono mettere il classico dito nella piaga e dimostrare quanto sia stato il nord ad aver bisogno dei capitali del Sud e non viceversa.
A titolo di completezza, ti allego il link di uno dei scritti di questo mio sito. Buona giornata e arrisentirci a presto.
Giovanni Bonarrigo
La Napoli-Portici, parte di un progetto di cui l’invasione piemontese impedì la realizzazione.
https://www.fogliodisicilia.it/2011/storie-di-sicilia/un-grande-progetto-ferroviario-sacrificato-allunita-ditalia/