Storie di Sicilia
“LAMPARE SPENTE”. Viaggio nella Sant’Alessio degli anni ’50 (raccontato da Carmelo Duro)
Soltanto nove famiglie abitavano i due vicoli che hanno lo stesso nome e che, nel centro di Marina di Vigoria, si intersecano a T, via Venezia e vico Venezia. Era quello uno dei piccoli mondi molto popolari che costituivano la comunità, il paese.
Quarantatrè persone in un minuscolo fazzoletto, alcune delle quali legate da vincoli di parentela, e tutte da amicizia e solidarietà. Quarantatrè persone che costituivano le dignitose famiglie di quel microcosmo, alcune sicuramente eredi di tanta povertà, e tutte che possedevano un antico e prezioso bene che, per convinto dovere, si adoperavano perché venisse trasmesso ai figli: la dignità, che non poteva prescindere dal rispetto.
Non mancavano, però, atteggiamenti e comportamenti egoistici caratterizzati da piccole invidie, come non mancavano, a volte, litigi sia pure per banali ed irrilevanti motivi che spesso erano causati dalle necessità e dalla miseria che scandivano la quotidianità di taluni.
Don Petru si dava da fare prevalentemente nelle campagne “a giornata” e, saltuariamente, in piccoli lavori artigianali, ‘i rrattèddi; don miciu, invece, era un pescatore di professione come don Vicenzu detto ‘a marina, come Fulippu detto pisci ‘i scogghiu e come ‘u zù Giuvanni.
La pesca, malgrado la varietà delle specie e la ricchezza del mare, non sempre dava grosse soddisfazioni; a volte, infatti, l’l’uscita in mare non era ripagata da una ricca pescata. Quando invece andava bene, il psce veniva acquistato dai rraittèri che spesso non erano del luogo; Don Vicenzu ‘a marina, suo fratello Pippinu e Fulippu pisci ‘i scogghiu preferivano, però, venderlo personalmente.
In casa dei pescatori, a meno che non ci fosse qualche malato in famiglia, giungeva il pesce di qualità più scadente e quello più maltrattato dalle reti. Era un po’ come la frutta a tavola che, quando non si produceva nella propria campagna, era considerata come un lusso che nessuno si poteva permettere e, quindi, come una cosa della quale si poteva fare a meno “tantu –diceva ‘a zà Carmela- ‘a frutta servi ppi passari ‘ù sapuri”.
In effetti la necessità di “passari ‘u sapuri” c’era sempre, considerato che d’inverno erano i legumi a dominare il desco con una obbligata preferenza per il piatto unico: fave secche non sbucciate “perché hanno più sostanza”, amalgamate con minestra ‘i campagna, oppure con seghere di orto, il tutto condito con misurato ilio di oliva la cui propria produzione annua, qualunque fosse, doveva risultare bastevole almeno fino alla successiva raccolta delle ulive, salvo i casi delle malannàte.
In estate il “piatto unico” era a base di pesce, e la pesca, pressoché quotidiana, era quella di custaddeddhi che richiedeva un equipaggio di almeno dieci persone su due barche, una d’avanti e l’altra d’arrèti, indispensabili per affrontare questo tipo di pesca. Se poi si prevedevano ricche pescate, allora le barche diventavano tre con ‘u buzzettu (1) che faceva la spola tra ‘a rraustina (2) e la spiaggia. In questo caso l’equipaggio poteva arrivare anche a tredici o quattordici unità. Ciò significava che, essendoci in paese cinque rraustine, giornalmente, solo per la pesca delle costardelle, c’erano in mare da cinquanta a sessantacinque persone, per cui altrettante famiglie attendevano con speranza che la pesca fosse continua ed abbondante.
Primo piatto, dunque, pasta con il pomodoro, arricchita da pezzetti di costardelle sfaldate nella salsa durante la cottura e, per “secondo”, costardelle cucinate nella stessa salsa.
A non avere un rapporto diretto con il mare erano don Sarinu con le sue sorelle, Santo con Ciccina e don Lorenzo ‘u trapanasi con donna Tiresa.
Don Sarinu e le sue sorelle gestivano un negozio-bazar che prima era una gelateria e prima ancora era stato un salone da barba. Santo faceva il venditore ambulante di frutta, verdura ed ortaggi. Personaggio ermetico era invece don Lorenzo ‘u trapanasi, sempre sorridente, spesso ghignante, scherzoso, ironico; parlava lentamente, con voce rauca e bassa, facendo largo uso di mottetti. Aveva le dita della mano destra quasi completamente anchilosate e all’anulare della mano sinistra portava un grande anello con una grossa pietra bianco-azzurra che lui diceva essere un opale “nobile”, non tanto per la ricchezza di iridescenze di cui era dotato, quanto per l’identificazione indiscutibile con la sua nobiltà d’animo, come teneva a precisare lui stesso.
Don Lorenzo era comparso in paese verso la fine degli anni Trenta, in pieno regime fascista; di lui, della sua provenienza trapanese, del suo passato che dicevano mafioso e che lo avrebbe portato qui in soggiorno obbligato, talvolta si sussurrava, ma in realtà non si sapeva nulla. Né qualcuno indagava per sapere: non interessava a nessuno perché lui si era perfettamente integrato, non aveva mai disturbato nel quartiere e non dava adito a sospetti o intrighi di sorta. Di tanto in tanto veniva gente ad ossequiarlo, lo abbracciava o gli baciava la mano, si fermava qualche giorno arrangiandosi alla meno peggio nella piccola casa e, poi, ripartiva anonimamente come era venuta. Queste fugaci presenze destavano la curiosità in quasi tutto il quartiere, diffidente di fronte a quelle dimostrazioni di rispetto verso don Lorenzo che, però, nonostante tutto, si trovava accresciuta la considerazione in cui era tenuto.
Il ruolo delle donne era interamente compreso nelle faccende domestiche, dalla pulizia della casa al bucato fatto nelle bagnarole con la cenere, alla preparazione del sapone fatto in casa con potassa e ‘a murga (3), alla stiratura col ferro a carbone, alla preparazione del pranzo che veniva cotto in nerissime pignte di rame che continuavano ad affumicarsi sopra fornelli a legna. Le cucine, fuligginose, erano quasi sempre ricavate, come i gabinetti (spesso soltanto il vaso), sul ballatoio della casa, senza, a volte, la porta d’ingresso, con i fumaioli che non tiravano quasi più e il fumo invadente il resto della casa.
Le ore pomeridiane erano destinate ai lavori di ricamo e di uncinetto, che, d’estate, si svolgevano in mezzo al vicolo, ‘ntà vaneddha, dove le donne, che si erano portata da casa la sedia con le gambe corte, ‘a siggìtta, si sistemavano in cerchio occupando per intero l’ombra dei rami di un vecchio albero di fico che sporgeva sul vicolo dal terreno adiacente.
Si ritrovavano lì ad animare loro quella vaneddha, nelle ore calde, quando il sole era a picco e spaccava la terra battuta della strada, quando tutto intorno e dappertutto regnava il silenzio più assoluto, quando anche i gatti, i cani, le galline, impigrivano senza fiatare appena trovavano un cono d’ombra e, mentre ‘u zù Giuvanni, come quasi tutti i pescatori in quei soffocanti pomeriggi, con un cuscino sottobraccio e il cappellaccio di paglia in testa, pantaloni con camicia bianchi e un’andatura lesta e decisa, se ne andava ‘ntà rina, sutt’a barca, a rifarsi del sonno perduto durante la notte sul mare.
Nascevano così lavori di grande creatività. Ricami, merletti e seducenti disegni a “punto in croce” rivelavano una professionalità notevole, vere e proprie opere d’arte.
Lavoravano e si scambiavano pareri o si raccontavano fatterelli dei mariti o dei figli. E, quando non c’era più nulla da dire su queste cose, oppure quando si stancavano di fare un po’ di curtìgghiu sui rari avvenimenti del paese, era facile sentirle cantare sottovoce, quasi formassero un timido coro, dai toni molto bassi, come se temessero di svegliare i passeri che erano parte familiare di quella comunità e che avevano nidificato nei fori delle pareti delle vecchie case o tra i rami dei vicini alberi.
Non sempre erano presenti a queste riunioni le sorelle di don Sarinu, che preferivano restarsene in casa in attesa di aprire il negozio-bazar, e non sempre partecipavano ‘a zà Lucia, che era anziana e soffriva il caldo che faceva calare la pressione, e donna Tiresa che sonnecchiava all’ombra, sul marciapiedi della strada maestra, accanto a suo marito, ‘u trapanasi. Don Lorenzo allungava la sedia a sdraio e si faceva, proprio là, sulla strada, delle interminabili dormite, interrotte dal passaggio di qualche rara automobile e conciliate sempre dalle musiche folcloristiche e dalle stornellate di canti popolari dialettali a doppio senso di cui possedeva un ricco repertorio in dischi a 78 giri.
I ragazzi si riunivano per conto loro, giocavano ai sordi ‘o quatratu oppure ‘a sciancateddha o ‘a mmucciateddha (4) e sognavano un futuro di ricchezza e di benessere in un luogo dove tutto doveva essere bello e facile, l’America.
Per loro il giorno del segnale era quello del 23 giugno, vigilia di San Giovanni Battista. Preparavano, sotto il bruciante sole di quelle prime ore pomeridiane, il piombo che si erano procurati sottraendolo a don Minicu, che ne teneva sempre una scorta da attaccare alle reti, e lo mettevano sul fuoco, a sciogliere, dentro una lattina della Cirio, ‘a buatta, che aveva contenuto salsa di pomodoro. Nel frattempo ripulivano e definivano piccoli tratti della terra del vicolo, uno per ciascuno. Quando il piombo era diventato liquido, lo versavano rapidamente negli angusti spazi e, dalle originali tozze ed impreviste forme che esso assumeva, traevano auspici e, soprattutto, interpretavano con fantasiosa lettura il futuro che, quasi sempre, li vedeva sopra un piroscafo verso l’America.
1) ‘U buzzettu: piccola imbarcazione che trasportava a più riprese il pesce a riva mentre dalle due barche al largo continuava a svolgersi la pesca.
2) ‘A rraustina: rete lunga oltre 200 metri con un grande “sacco” centrale detto fonte.
3) ‘A murga: feccia dell’olio.
4) Giochi di bambini: ‘o quadratu: consisteva nello spingere, con pollice e indice o pollice e medio, delle monetine dentro gli spazi di un quadrato disegnato per terra… ‘a sciacateddha consisteva nel saltare con unma sola gamba dentro tanti rettangoli successivi fino alla corona finale dove si poteva appoggiare anche l’altra gamba… ‘a mmucciateddha: a nascondino.
NOTA: Testi tratti dal libro di Carmelo Duro ”Lampare spente”, Catania, Maggio 2003.
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