Storie di Sicilia
I COMBATTENTI DELL’EVIS. IL SOGNO DI UNA SICILIA STATO LIBERO
Parallelamente alla pubblicità sul “proclama” che Giuliano fa affiggere sui muri dei paesi, la gente esamina la proposta. Se ne parla nei casini, in campagna, tra braccianti, nelle case, pure qui a bassa voce: “Ma io non ho niente da perdere , anzi, se Giuliano vincerà avrò tutto da guadagnare, e sarebbe cancellato pure il mio reato di furto”.
Discorsi come questi si fanno un po’ ovunque, a Montelepre, a San Giuseppe Jato, da qui a Corleone, Partitico, Cacciamo, Bagheria, San Cipirello, Belmonte Mezzano, Mezzojuso, sino a Lercara Friddi, Insomma, la proposta di Giuliano viene valutata da centinaia di picciotti.
E lui? Che cosa fa? Crede di potere riuscire a mettere assieme un grande esercito Salvatore Giuliano. I suoi occhini scuri scintillano: “Nella mia vita esiste solo un obiettivo, fare della Sicilia uno Stato Libero. È per questo che bisogna lottare. Tutto sommato, se dovessimo fallire, non perderemo nulla. Ma io sono sicuro che vinceremo. Comunque sia, non voglio pensare a cose brutte, anche perché credo che le persone con le quali ho stipulato l’accordo siano quelle giuste. Sono le più efficienti e coraggiose che abbia mai conosciuto”.
Nella prima metà degli anni Quaranta la Sicilia sembra per la prima volta vibrare, sul punto di imboccare finalmente una strada nuova, che avrebbe provocato un “terremoto”. Purtroppo si tratta soltanto di scosse superficiali, che non causano vasti movimenti popolari, solo aspettative, speranze e nulla più. Tuttavia, la risposta alla “chiamata” di Salvatore Giuliano è più immediata del previsto, ma non è la massa che il “re” di Montelepre si aspettava. Comunque, sono almeno duecento i giovani neo indipendentisti che scelgono la via tracciata dal “re” di Montelepre. I primi passi verso la guerra contro lo Stato sono fatti. In pochi giorni i picciotti di Giuliano sono armati come un vero e proprio esercito, grazie soprattutto ai residuati bellici che Giuliano era riuscito a rubare e mettere da parte in attesa di qualche evento eccezionale. Eccolo arrivato: la lotta armata per il trionfo del Separatismo.
L’esaltazione individuale è al massimo: “Questa è l’occasione per buttare a mare chi è contro la Sicilia e dimenticare le nostre pene, le ingiustizie alle quali siamo stati costretti da troppi anni”, dice Giuliano agli uomini del proprio “esercito” di villani analfabeti, qualcuno dei quali, dopo diversi giorni di addestramento tra le montagne, non è ancora in grado di caricare un fucile. “Devi imparare a sparare bene se vuoi evitare di essere ucciso, perché quelli contro i quali andremo a combattere i fucili li conoscono bene e sanno come fare per impedirti di sparare una seconda volta. Credi a me. io li conosco, quelli sbagliano raramente quando sparano”.
Ce la mette davvero tutta Giuliano per avere un “esercito” efficiente, ma con alcuni dei suoi uomini è pretendere molto persino il rispetto dei ruoli che spettano a ciascuno, figurarsi la disciplina nella pulizia e nell’uso delle armi.
“Gaspare – dice Giuliano a Pisciotta – bisogna fare più in fretta, altrimenti arriveremo al giorno dello scontro con la metà degli uomini che non sapranno ancora come si punta un fucile”. “lo so, ma è con questo olio che dobbiamo friggere”, sbotta Giuliano, aggrappandosi a una metafora e allargando le braccia.
Il piano di attacco progettato dal “re” di Montelepre è di assalire caserme e convogli delle forze dell’ordine. Il clima è quello di una guerra civile. Giuliano è sicuro del grande balzo, perché ha l’appoggio non solo di duecento picciotti, ma anche di gente che, a differenza dei contadini affamati e analfabeti, conosce la tecnica per fare politica. Inoltre, è gente che ha voglia di cambiamento: un desiderio che monta di giorno in giorno non solo in Italia, ma in tutta Europa.
Giuliano ama il proprio ideale, ma il successo per l’indipendenza della Sicilia non è scontato. Forse sarebbe dovuto essere un tantino più cauto, valutare, e solo dopo dare la propria disponibilità ai separatisti. Ma non è stato così, e sappiamo anche il perché. Lui, infatti, sosteneva che non avrebbe potuto perdere nulla, perché non possedeva proprio niente; a disposizione aveva solo la propria vita, ma valeva ben poco, al momento che le forze dell’ordine di tutta Italia lo braccavano dal settembre del 1943, da quando in contrada “Quar Mulino” aveva ucciso un uomo dell’Arma dei carabinieri.
La prima “fortezza” presa di mira dall’esercito di Giuliano è quella di Bellolampo. Poi è il turno della caserma di Pioppo, di Borsetto, di Grisì e Montelepre. Salvatore Giuliano si era talmente eccitato per quell’azione contro la caserma di Bellolampo che alla vigilia non pensò neppure di cenare. Non aveva alcuna intenzione di perdere tempo, temeva che qualcosa all’ultimo minuto potesse mandare all’aria il piano d’attacco.
“Non ho alcuna voglia di sprecare giorni di preparazione. Bisogna essere precisi, puntare e sparare, diritto, senza sbagliare un solo colpo”.
L’assalto a sorpresa ha successo. La vittoria carica gli uomini. Dopo Bellolampo è il turno di Borsetto e da qui a Montelepre. È il 1947. l’Esercito dello Stato passa al contrattacco e gli uomini di Giuliano ripiegano sulle montagne. Ma sono molti quelli che restano sul terreno di scontro, diversi vengono catturati, mentre tanti altri s’imbarcano sui pescherecci e fuggono a Tunisi.
Contro Giuliano solo giudizi severi, di condanna, che arrivano da Roma e anche dalla Sicilia. E questo è un segnale preoccupante per Giuliano. Ora è in pericolo il “re” di Montelepre, non si sente più sicuro neppure sulle montagne, teme che qualche traditore lo possa consegnare alle forze dell’ordine.
“Tu cosa pensi?”, dice Giuliano al luogotenente Gaspare Pisciotta. “Non so cosa pensare”. “Credi che abbia sbagliato? Credi che non ci sia motivo per preoccuparmi?”. “Non lo credo”.
È in pericolo Giuliano. Lo avverte, soprattutto perché gli amici dell’Evis non si sono più fatti sentire, nessun messaggero è arrivato sulle montagne da più di due settimane. Ora Giuliano sa che dovrà combattere più di prima. Un tempo si sentiva forte, invincibile, ora dubita, perde fiducia, ma la mafia arriva puntuale a tirarlo fuori dai guai.
Manca poco al tramonto quando una vedetta segnala la presenza di uno sconosciuto: “Che faccio? Sparo un colpo d’avvertimento?” – “No, sarà stato mandato qui sopra dagli amici. Fallo proseguire, tanto avremo tempo per farlo pentire di averci sfidato”, urla Gaspare Pisciotta all’uomo di guardia.
Lo sconosciuto è un giovane di poco più di vent’anni, porta un messaggio della mafia per Salvatore Giuliano, un programma di salvataggio, da eseguire immediatamente. Il progetto di Cosa nostra è di prelevare il “re” di Montelepre e portarlo in un rifugio: una villa al mare, dove dovrà trascorrere un periodo insieme con una donna, lontano dai pericoli della montagna.
Giuliano parte, si affida al piano dei boss di Cosa nostra e della gentilezza della signora, istruita per fare dimenticare al bandito le pene delle ultime settimane. Lì, nella villa, i giorni trascorrono sereni.
Intanto il Separatismo vacilla e alcuni capi dell’Evis barattano la resa con l’amnistia. Per Salvatore Giuliano, invece, non arriva alcun provvedimento di clemenza. Che fare? Tornato ormai sulle montagne sa che l’unica cosa certa è di essere rimasto isolato, abbandonato dai capi della “rivoluzione”, lasciato solo, al proprio destino, che è lo stesso di un altro centinaio di uomini che lo hanno seguito nell’avventura.
“Parole, parole, parole. Non ti puoi davvero fidare di nessuno, tanto meno dei politici. Loro sanno parlare, certo, ma quando è il momento di prendere decisioni che potrebbero significare la fine del loro prestigio ecco che fanno subito marcia indietro, per salvare i loro privilegi. Bastardi, figli di puttana, infami. Ecco che cosa sono, degli infami”, urla Giuliano sbattendo la porta di un casolare dentro il quale aveva trascorso assieme a Gaspare Pisciotta e a un gruppo di picciotti.
“Qual è la prospettiva? Abbandonare tutto, dimenticare ciò che abbiamo fatto sino ad ora e fuggire? Ho bisogno di un consiglio dice Giuliano a Pisciotta”.
– “Non è necessario fuggire. Sono sicuro che prima o dopo qualcuno tornerà a chiederci qualcosa, a farci altre proposte, ma quel giorno sarai tu a dettare le condizioni, perché su queste montagne sei il più forte, il più armato”.
Giuliano guarda Pisciotta e accenna un sorriso: “E’ tutto come ai vecchi temp, eh Gaspare? Saremo sempre noi che qui sopra faremo la legge… Non è vero?”.
Illusione. Giuliano non ha neppure l’idea di ciò che da lì a poco dovrà accadere in Sicilia. Con il collasso del Fascismo e la spartizione degli ultimi monarchici sta per mutare definitivamente volto, non solo l’Isola, ma tutto il Paese. E tutto questo accadde mentre nelle campagne regna ormai lo sconforto, la rassegnazione, e il benessere appare un obiettivo irrealizzabile. Eppure, nel futuro dell’Italia ci sono già in progetto mobilità e urbanizzazione, corsa verso le città e definitivo abbandono delle campagne. Tutto questo, Giuliano lo ignora, non immagina neppure che dopo la riparazione dei danni provocati dalla guerra la gente avrà momenti di serenità, che sino a pochi anni prima potevano sembrare soltanto sogni. E, al di là del folclore che si crea attorno al banditismo e a Salvatore Giuliano, gli uomini faranno presto a dimenticare il passato: “Venga a comandare chi vuole purchè ci sia il lavoro”. Un ritornello che farà presto a girare tra paesi e contrade, dove, nel periodo che si avvicina agli anni Cinquanta, comandano sempre più personaggi della Sicilia arcaica che, molto più tardi, gli investigatori indicheranno come i capi di Cosa nostra, compari di quei politici inviati a rappresentarli in Parlamento, dove siedono accanto a persone che credono sia nella politica sia nella ripresa del Paese.
E noi conosciamo quei boss della Sicilia arcaica: don Calogero Vizzini, Giuseppe Genco Russo (entrambi della provincia di Caltanissetta), Salvatore Zizzo, di Partanna, che trascorre molti anni a Salemi, don Sasà Di Maggio e don Paolino Boutade, di Palermo.
Sono gli anni in cui vengono puniti con la morte i contadini coraggiosi e sindacalisti che si battono per fare ottenere un salario dignitoso ai giornalieri di campagna. A Corleone, per esempio, viene assassinato Placido Rizzotto, sindacalista della Camera del Lavoro, che un giorno litiga con il boss Luciano Liggio, l’uomo destinato a diventare il “re” di Cosa nostra, il cui scettro, negli anni Ottanta, passerà nelle mani di don Totò Riina.
Ne aveva avuto davvero tanto di fegato Placido Rizzotto. Un giorno arrivò persino a schiaffeggiare in piazza Liggio, che si era opposto all’aumento del prezzo della giornata di lavoro per i braccianti. Gli agrari non erano d’accordo e Liggio, che dei proprietari terrieri era il rappresentante, aveva detto no. Da qui l’intervento di Rizzotto. Il sindacalista paga caro l’affronto a Liggio. I resti di Rizzotto verranno trovati più di un anno dopo in una fossa di Ricca Busambra, a Corleone.
La ferocia della mafia, i rapporti con Salvatore Giuliano, le promesse non mantenute. Non ci avrebbe mai creduto il “re” di Montelepre, eppure è un altro capitolo della sua vita che si chiude.
NOTA. I testi sono tratti dal libro di Angelo Vecchio “Salvatore Giuliano il “re” di Montelepre”, pubblicato nel 1998.
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